16 Novembre 2025

L’opposizione anomala al governo. Toghe e sindacati, quando l’azione di contrasto si sposta fuori dal Parlamento

Se il famoso «marziano» partorito dalla fantasia di Ennio Flaiano fosse sbarcato a Roma in questo fine settimana, sarebbe rimasto sorpreso nel vedere che l’opposizione al governo in carica è nelle mani di due sindacati: il sindacato dei magistrati e il sindacato dei lavoratori dipendenti (in maggioranza pensionati). Le due manifestazioni di lotta del week end sono state anche simbolicamente unite da un tratto etico ed epico comune, e cioè la presenza in entrambe di Sigfrido Ranucci (nel caso dei magistrati c’era anche il cantautore Edoardo Bennato, ma questa partecipazione è più difficile da interpretare).
Toghe e piazze sono in realtà da trent’anni dei veri e propri totem della sinistra in Italia. Ma in passato, seppure a intermittenza, i partiti che di volta in volta la rappresentavano si sono sforzati di fare una sintesi politica delle loro ragioni, mantenendo così nel Parlamento il centro dello scontro democratico. Ora invece l’Anm guida direttamente il comitato per il No al referendum sulla riforma costituzionale della giustizia, così come la Cgil guidò quello per il Sì all’abolizione del Jobs Act, poi fallito per mancanza di quorum.
Questo è sicuramente un problema in una democrazia rappresentativa. Soprattutto perché affida a interessi costituiti, quindi per definizione parziali per quanto rispettabilissimi, il regolamento dei conti in campi che riguardano l’intera comunità nazionale.
Indebolendo così alla lunga il ruolo del Parlamento, già afono di suo. È un po’ come se i commercianti o i notai facessero non solo lobbying, ma politica in prima persona, con i partiti di riferimento al seguito.
Il rilievo assunto dall’amministrazione della giustizia nella vita civile è cresciuto smisuratamente in questi anni. Il sociologo Alessandro Pizzorno parlò qualche tempo fa di «resa delle autorità sociali alla legge». Ciò che succede nella famiglia, nella scuola, sul luogo di lavoro, in una corsia d’ospedale, è sempre più spesso oggetto di ricorso alla giustizia, per regolare sistemi un tempo in grado di regolarsi da soli. È la «giuridificazione» della società, che da un lato moltiplica la produzione di leggi, spesso micro-leggi, e dall’altro consegna ai giudici il potere di «fare» giustizia, invece che «amministrarla» soltanto.
È un fenomeno che vediamo in molti altri grandi Paesi democratici. Negli Usa, per esempio, dove i giudici rappresentano al momento la più efficace e pertinace opposizione alla presidenza imperiale di Trump. O in Francia, dove i giudici hanno appena messo in galera un ex capo di Stato, Nicolas Sarkozy (e in Francia c’è la separazione delle carriere, si vede che non deve aver influito molto sulla loro indipendenza dal potere politico).
Ma negli altri Paesi la resistenza, se così vogliamo chiamarla, del potere giudiziario a quello esecutivo, avviene per la via della giurisdizione, cioè intentando processi ed emanando sentenze. In Italia, dopo aver abbondantemente seguito quella strada, ora il potere giudiziario si affida a una vera e propria mobilitazione politica per conquistare il consenso dell’elettorato.
La giustificazione è, ovviamente, la suprema necessità di «difendere la Costituzione». Più o meno ormai ogni battaglia, anche sindacale, anche di categoria, in Italia scomoda la Carta fondamentale. Eppure, in Costituzione non è mai scritto che la carriera dei magistrati debba essere unica; né si può argomentare che la separazione delle carriere sottometta di per sé il Pm al potere esecutivo. Anzi. In Spagna, carriere separate, i magistrati stanno indagando la moglie del premier Sánchez. In Portogallo, carriere separate, un’inchiesta della magistratura ha fatto cadere il governo Costa.
A dire il vero gli stessi magistrati che si oppongono alla riforma costituzionale paventando il rischio di una ridotta indipendenza dei Pm, usano anche l’argomento opposto: e cioè che la separazione delle carriere svincolerebbe i procuratori da ogni condizionamento da parte del resto della magistratura, garantendogli un Csm tutto loro; e potrebbe così perfino provocare l’effetto opposto, il rafforzamento di un potere incontrollato delle Procure (questa seconda preoccupazione, non da poco, sembra più convincente della prima).
Ma ciò che interessa qui non è giudicare la riforma: se ne avrà tutto il tempo (a partire dalla domanda cruciale, e cioè se serve davvero) quando comincerà la campagna referendaria prevista nel 2026, davvero la «madre di tutte le battaglie» per il governo Meloni. Conta di più oggi valutare il grado di dipendenza dell’opposizione politica dalle toghe e dalla Cgil.
In realtà due alti esponenti del Pd (l’unico partito su cui questa misurazione possa essere fatta, perché è l’unica forza politica che mantiene orgogliosamente il nome di «partito», essendo gli altri movimenti o insiemi di movimenti) hanno mostrato di recente un certo imbarazzo a mettersi dietro le bandiere dell’Anm, temendo di pagare un prezzo a quella che ammettono essere una caduta di «credibilità» della categoria presso l’opinione pubblica. Per cui annunciano che non faranno una campagna elettorale in difesa dei magistrati, ma contro Giorgia Meloni e il suo tentativo di prendersi tutto, compreso il Quirinale, nella prossima legislatura. Il che, per quanto riveli un po’ ingenuamente il vero e implicito contenuto di una battaglia che dovrebbe essere sul merito della riforma, quantomeno è un ragionamento politico.

A.N.D.E.
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