11 Dicembre 2024

Gaza può servire al presidente proprio per far dimenticare alla popolazione la catastrofica situazione in cui versa un Paese che gli analisti si sono domandati a lungo se non fosse «troppo grande per fallire» o «troppo difficile da salvare»

Saranno anni difficili quelli che Abdel Fattah al Sisi, eletto per la terza volta presidente dell’Egitto dopo il colpo di stato del 2013, trascorrerà tra i tappeti del Palazzo di Heliopolis sperando di trasferirsi, prima o poi, in quella nuova capitale che ha deciso di fare nascere a cinquanta chilometri dal Cairo. Spendendo 60 miliardi di dollari in un Paese dove il 30 per cento degli abitanti vive al di sotto della soglia di povertà. I risultati ufficiali gli hanno attribuito l’89,6 per cento dei voti. Gli altri tre candidati erano delle comparse tollerate dal regime. L’oppositore Ahmed al-Tantawi è stato ostacolato tanto da venire costretto alla rinuncia.
Non è certo un caso che questa roccaforte dell’autocrazia in costruzione nel deserto sia molto più lontana da Piazza Tahrir, il simbolo dell’Egitto inquieto. Qui, dove la gente fece cadere Hosni Mubarak, è successo due mesi fa qualcosa che l’onnipotente apparato di sicurezza (la cui perversità fa pensare in primo luogo alla vita spezzata di Giulio Regeni) non riuscì a impedire. Era il 18 ottobre, undici giorni dopo il massacro di Hamas. I burattinai del potere persero il controllo della manifestazione convocata per protestare contro Israele e far conoscere al mondo il no alle ipotesi di trasferire nel Sinai i palestinesi di Gaza. Come ha scritto Reem Abou-el-Fadl, docente di politica comparata del Medio Oriente alla School of Oriental and African Studies, molti partecipanti a quel raduno «non rispettarono il copione». Si diressero, appunto, verso Piazza Tahrir. E c’era chi urlava anche lo slogan della rivoluzione del 2011: «Pane, libertà, giustizia sociale». Gli arresti furono un centinaio.
La lezione di quel giorno è che la solidarietà con la causa palestinese, acutizzando il malcontento, può diventare il nocciolo di un’alternativa: un’ alternativa laboriosa da costruire tenendo conto che il regime è riuscito con vari mezzi a far crescere la partecipazione al voto presidenziale, passata ora ad un robusto 66,8 per cento dal 41 per cento del 2018. Molti egiziani, però, aggiunge el-Fadl, si sono interrogati nelle settimane scorse, dopo quella manifestazione, sulla loro condizione «come qualcuno che si rialza in piedi dopo un duro colpo». La pensa in modo simile Hossan el-Hamalawy, giornalista in esilio, secondo cui «il regime tenta di canalizzare la collera, cosciente che se la situazione gli sfuggisse di mano sarebbe costretto ad affrontare un’onda di contestazione ben più difficile da controllare che le altre forme convenzionali di dissidenza». Non si deve nemmeno escludere, aggiungiamo, che quanto sta accadendo a Gaza possa diventare innescare un’esplosione di radicalismo i cui pericoli sono evidenti. Già adesso le moschee ospitano continue preghiere per le vittime dei bombardamenti dello Stato ebraico.
Ma il problema egiziano è talmente complesso che potrebbe essere possibile anche uno scenario differente. La scommessa di al Sisi (un uomo spregiudicato, che impersona, come ha detto lo scrittore Ala al-Aswani, il «volto» di un rigido potere militare) è quella di riuscire a rafforzarsi – dopo anni in cui non si è certamente distinto nella ricerca di soluzioni del conflitto israelo-palestinese – dirigendo il sentimento popolare suscitato dallo scontro Israele-Hamas, atteggiandosi a protettore della popolazione di Gaza (l’Egitto ha assicurato l’80 per cento dell’aiuto umanitario arrivato nella Striscia e ha svolto un ruolo importante nei contatti che hanno portato alla tregua), cercando di apparire come l’uomo che respinge soluzioni «punitive» nell’assetto della regione, dando prova di impegno diplomatico e dinamismo. «Gli elettori – ha detto dopo la proclamazione dei risultati – non hanno solo votato per me ma espresso il loro rifiuto di una guerra disumana».
Al di là dei possibili sbocchi, Gaza può servire al presidente proprio per far dimenticare alla popolazione la catastrofica situazione economica in cui versa l’Egitto e per provare a tirare avanti in un Paese che gli analisti internazionali si sono domandati a lungo se non fosse «troppo grande per fallire» o «troppo difficile da salvare». A giudizio dell’Istituto per gli studi di politica internazionale «il drammatico contesto della guerra potrebbe rivelarsi, paradossalmente, uno strumento a supporto del regime, dello status quo e quindi ritardare il processo riformatore». I dati sono allarmanti. Durante l’era al Sisi il debito pubblico ha raggiunto quasi il 90 per cento del Pil e il debito estero è passato dal 17 per cento al 39 per cento di oggi. La moneta egiziana ha perso nell’ultimo anno quasi la metà del suo valore mentre l’inflazione ha toccato a ottobre il 37,1 per cento. Con grande spudoratezza l’ex generale ha avuto il coraggio di dire, a ottobre, una frase che nessuno dimentica: «Se il prezzo del progresso e della prosperità della nazione è la fame, allora mangeremo di meno». E al Cairo, durante la campagna elettorale, la gente faceva la coda per comprare lo zucchero.
In questo contesto i diritti umani assumono sempre più rilievo. Il leader egiziano ha azzerato la società civile, rimosso ogni ostacolo alla conservazione del potere, arrestato oppositori politici, giornalisti o chiunque potesse non essere organico al suo dominio (come insegna la vicenda dello studente dell’Università di Bologna, Patrick Zaki), vietato manifestazioni e assembramenti, dilatato fino all’inverosimile l’apparato di controllo e repressione. La comprensione del ruolo strategico svolto storicamente dal Paese nello scacchiere internazionale, e in particolare nel Mediterraneo, ha portato ad un eccesso di realpolitik che non può durare all’infinito. Nessun interesse può giustificarlo. Anzi, come osserva Timothy Kaldas, vice direttore del Tahrir Institute for the Middle East Policy, «voltare la testa dall’altra parte è sbagliato» anche perché «le violazioni dei diritti umani in realtà stanno contribuendo direttamente all’instabilità economica dell’Egitto». Il legame risulta evidente. Deve essere questo, dopo la sua scontata incoronazione, il filo conduttore dei rapporti con al Sisi. Joe Biden e Ursula von der Leyen non lo dimentichino.

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