16 Novembre 2025

Una riforma che sembra proporre più problemi che soluzioni. Restano irrisolti i nodi che sono emersi anche all’interno della stessa maggioranza che l’ha votata

Anche al momento dell’approvazione definitiva non sono mancati slogan contrapposti, che c’entrano poco o niente con il merito della riforma costituzionale della magistratura. Evocata da un lato come il toccasana per frenare gli errori giudiziari e la «giustizia politicizzata», e dall’altro come un pericolo immanente e imminente per la democrazia. Affermazioni quanto meno azzardate, e ci sarebbe da augurarsi che la campagna referendaria che sta per cominciare sfugga alla trappola di richiami fideistici o catastrofici, ancorché infondati. Ma viste le premesse è difficile che accada.
Basta dare un’occhiata a temi e nomi scelti per la propaganda dei prossimi mesi. La maggioranza invoca le vittime dei processi sbagliati e ricorda il caso emblematico di Enzo Tortora, nel quale i giudici di primo grado inflissero una condanna dichiarata ingiusta (e quindi ribaltata) da quelli d’Appello e della Cassazione: magistrati che con la riforma rimarrebbero inseriti nella stessa carriera, quindi non si capisce come la separazione varata ora possa influire su un processo simile; a meno di immaginare, per evitare condizionamenti, carriere differenti anche per i giudici di ogni grado di giudizio.
A proposito del conflitto tra politica e giustizia, tra i possibili testimonial del Sì alle nuove norme è stato ora inserito l’ex pm di Mani Pulite Antonio Di Pietro, lo stesso che — secondo la testimonianza del suo ex procuratore Francesco Saverio Borrelli — disse di Silvio Berlusconi neo-indagato (che in precedenza lo voleva addirittura ministro del suo governo; poi lo fu col centro-sinistra): «Io quello lo sfascio». Oggi potrà tornare utile allo schieramento di Forza Italia che (giustamente, dal suo punto di vista) rivendica la primazia della riforma, sebbene lo stesso Di Pietro abbia messo le mani avanti: «Chi mi dice che è una riforma che voleva Berlusconi mi fa arrabbiare due volte».
E per restare nel campo dei paradossi che la battaglia referendaria prossima ventura porta con sé, sull’altro fronte c’è il procuratore di Napoli Nicola Gratteri, pronto a dire No al fianco dell’Associazione nazionale magistrati dopo le freddezze — per così dire — che hanno caratterizzato in passato i suoi rapporti col sindacato delle toghe e con i «laici» di sinistra nel Consiglio superiore della magistratura.
Nel centro-destra si fa un gran citare di Giovanni Falcone e alcune sue affermazioni in favore della separazione delle carriere all’indomani dell’approvazione del codice di procedura penale datato 1989, in un contesto totalmente diverso da quello attuale (oggi la differenziazione delle funzioni è talmente radicale che ogni anno meno dello 0,5 di magistrati cambia ruolo), e quando l’allora pubblico ministero Carlo Nordio era contrario. Ma dall’altra parte potrebbero ricordare Paolo Borsellino (figura cara alla destra di allora e di oggi) che nel dicembre 1987 disse, parlando del ruolo del pm con le nuove regole del processo penale: «Le ricorrenti tentazioni del potere politico, quali ne siano le motivazioni, di mortificare obbiettivamente i pm, prefigurandone il distacco dall’ordine giudiziario anche attraverso il primo passo della definitiva separazione delle carriere, non incoraggiano certo i giudici, che tali tutti sentono di essere, a indirizzare verso gli uffici di Procura le loro aspirazioni».
Meglio Falcone o Borsellino? Domanda sciocca che dovrebbe indurre a rinunciare alla sfida a colpi di citazioni ultratrentennali di persone che non possono più parlare. Forse sarebbe stato più utile dare ascolto, ad esempio, ai rilievi contenuti nella relazione di minoranza del consigliere del Csm Felice Giuffrè, mandato lì da Fratelli d’Italia, che nel suo elaborato favorevole alla riforma ipotizzava correzioni per smussare o risolvere alcune delle principali criticità: un Csm unico con due sezioni separate per giudici e pm, anziché due Csm; un sorteggio «temperato» dei componenti togati per «salvaguardare un limitato carattere rappresentativo del Consiglio»; accorgimenti per la nuova giustizia disciplinare sottratta al Csm e affidata a una inedita Alta corte disciplinare, che porta con sé storture e contraddizioni. Non se n’è fatto niente perché bisognava fare tutto in gran fretta, senza che il Parlamento toccasse una virgola dell’unica riforma istituzionale che il governo sarà in grado di varare entro la fine della legislatura. Lasciando irrisolti nodi o contraddizioni che sono emersi anche all’interno della stessa maggioranza che l’ha votata.
È stato il senatore Marcello Pera, infatti, a segnalare i pericoli derivanti dalla creazione di una falange di meno di 2.000 pubblici misteri «autonomi, indipendenti, separati dai giudici e domani distaccati dalla democrazia perché non risponderanno a nessuno». Preoccupazione condivisa dal sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro che in un’intervista concessa (a sua insaputa) qualche mese fa immaginava pure il rimedio: «O si va fino in fondo e si porta il pm sotto l’esecutivo, come avviene in tanti Paesi, oppure gli si toglie il potere di dare impulso alle indagini».
È l’esito paventato da opposizioni e magistrati che, uniti dietro gli scudi dell’Anm, parteciperanno alla campagna per il No. Provocando il «disastro», denuncia di nuovo Pera, di diventare «un soggetto politico che si oppone al governo». L’Anm nega assicurando che la sua contrarietà è indipendente dagli schieramenti di partito, ma la possibilità di essere percepita nell’altro modo esiste ed è reale. Un altro effetto collaterale negativo di una Grande Riforma che sembra proporre più problemi che soluzioni.

A.N.D.E.
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