13 Ottobre 2024

Nessun istituto europeo nei primi 25 al mondo. Ma mentre l’Italia, la Spagna o l’Irlanda dopo la crisi finanziaria hanno ristrutturato i loro sistemi bancari — volenti o nolenti — la Germania non è mai stata spinta a farlo dalle autorità europee

La zona euro è la terza economia al mondo e la Germania, da sola, la quarta. Però se si guarda alle banche non si direbbe. Non compaiono istituti europei fra i primi dieci al mondo per valore di mercato, in una classifica che vede quattro banche americane, quattro cinesi, una canadese e un’indiana. Se poi si allarga alle prime venticinque, allora spuntano giapponesi, australiane, indonesiane, singaporeane. Ma, anche lì, dell’area euro neanche l’ombra.
Era inevitabile: in quella che l’economista Angel Ubide definisce l’alternativa tra efficienza e controllo — fra l’avere banche e aziende più grandi, più produttive, più capaci e propense all’innovazione, oppure il mantenere feudi nazionali più limitati ma autonomi — i governi europei hanno scelto da tempo il secondo. Preferiscono il controllo, o la sua illusione.Secondo il rapporto presentato da Mario Draghi «la frammentazione del sistema bancario lungo linee nazionali» fa sì che gli istituti fatichino a finanziare investimenti importanti, specie nelle tecnologie sulle quali l’Europa è già indietro rispetto a Stati Uniti, Cina, Corea del Sud, Giappone, Taiwan e persino rispetto ad Abu Dhabi. Tutti hanno applaudito Draghi, anche il governo tedesco: poi ha alzato barriere contro Unicredit su Commerzbank. Se però poi si restringe la classifica alle prime dieci banche dell’area dell’euro, la più grande della Germania è in ultima posizione: e non si tratta di Commerzbank, ma di Deutsche Bank.
La quale non solo vale la metà o meno di Intesa Sanpaolo, Unicredit, del Banco Santander o di Bnp Paribas. Vale la metà anche di Sberbank. Riflettiamoci. La prima banca della Germania, l’economia leader d’Europa, doppia rispetto a quella della Russia, vale la metà della prima banca russa. E quest’ultima è sottoposta a sanzioni durissime, in un Paese a sua volta colpito dal più vasto sistema di sanzioni della storia.
E per carità, il mercato non ha sempre ragione. Spesso si sbaglia, ma qualcosa starà pur cercando di dirci. Ci dice che esiste una questione tedesca all’interno di una più generale questione europea. Per restare all’industria del credito, assistiamo a una tardiva presa d’atto di quel che è accaduto nell’ultima dozzina di anni. Perché mentre l’Italia, la Spagna o l’Irlanda dopo la crisi finanziaria hanno ristrutturato i loro sistemi bancari — volenti o nolenti — la Germania non è mai stata spinta a farlo dalle autorità europee. Il risultato è che la seconda banca, Commerzbank, è nelle cure della mano pubblica nientemeno che da sedici anni (indisturbata dai regolatori) mentre la prima banca, Deutsche, è così debole che non può correrle in soccorso da mire «straniere».
Una lezione è che non conviene a nessuno in Europa considerarsi al di sopra delle regole. E certo l’Italia oggi sarebbe più credibile nel chiedere che si lasci funzionare l’Unione bancaria nell’area euro, se a Roma si fosse ratificato il Meccanismo europeo di stabilità con la sua rete di sicurezza per l’industria del credito.
Ma i problemi della Germania, così emblematici di quelli della zona euro, vanno oltre le banche. Da due anni il Paese non cresce e sembra di nuovo in recessione. L’export verso la Cina, che per il «made in Germany» valeva quasi cento miliardi di dollari, nell’ultimo anno è crollato del 12,4%. Non solo Volkswagen valuta l’ipotesi di chiudere impianti in Germania: Mercedes sta vendendo la sua controllata cinese nel settore delle auto elettriche e ibride perché non riesce a competere con le concorrenti locali, proprio ora che Shanghai è diventata una metropoli pulita e silenziosissima grazie a un parco auto quasi tutto a batteria.
La comprensibile reazione a questa crisi è l’arrocco tedesco di sistema, in forme più o meno esplicite. Fra queste ultime c’è la levata di scudi del cancelliere socialdemocratico Olaf Scholz e del suo probabile successore, il cristiano-democratico Friedrich Merz, contro le mosse di Unicredit. Un arrocco più sottile, ma insidioso, è invece quello che sta tentando da Bruxelles Ursula von der Leyen. La presidente tedesca della Commissione ha incaricato la sua vice, Teresa Ribera, di rivedere le regole contro gli aiuti di Stato nell’area della transizione verde «costruendo sull’esperienza» della loro sospensione dopo la pandemia. In sostanza, vuole lasciare che ogni governo sussidi la propria industria con i propri mezzi. Ma dopo il Covid la Germania versò alle proprie imprese quasi più aiuti di tutto il resto dell’area euro messa insieme: anche qui, il contrario degli investimenti comuni europei suggeriti da Draghi. Tra l’altro per Berlino non è affatto detto che gettare miliardi dei contribuenti tedeschi ai problemi funzioni, come dimostrano i gravi problemi dei sussidiatissimi impianti in Germania della svedese Northvolt (batterie) e dell’americana Intel (microchip).
Quel che deve cambiare è l’approccio, in senso europeo. Esiste una Germania delle imprese e delle élite politiche e culturali che lo sa meglio di chiunque. Ancora ieri il quotidiano economico Handelsblatt faceva i complimenti ai manager di Unicredit e dimostrava di capire il senso di questa partita. La vocazione europea di questa Germania migliore ha già portato il Paese fuori da crisi peggiori di questa: va aiutata, anche dall’Italia, non lasciata da sola.

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