Un «CERN dell’IA» rischia di essere un monumento alla nostalgia, più che uno strumento per disegnare il futuro. Invece di guardare al passato glorioso della fisica delle particelle, è il momento di costruire nuovi meccanismi per sostenere la ricerca europea nel mondo del 2025
In questi giorni si discute della proposta di creare, per l’Intelligenza Artificiale (IA), un equivalente del CERN, il celebre centro europeo nato nel 1954 per la fisica delle alte energie. La proposta è firmata da scienziati importanti, e la sua immagine evocativa è forte: un grande laboratorio europeo capace di aggregare scienziati, competenze e infrastrutture, come accadde nel dopoguerra per la fisica delle particelle. Ma è proprio questo simbolismo che ne rivela la debolezza concettuale. L’idea nasce da un parallelo fuorviante, che pensa ancora alla scienza con categorie del Novecento, in un secolo che l’ha radicalmente cambiata.
Il CERN è il figlio di un’epoca che viveva nell’ombra della minaccia delle armi nucleari e della Guerra fredda. La fisica delle particelle era una scienza guidata dagli Stati, astratta dal mercato e lontana dalla quotidianità degli individui: il suo valore era simbolico e strategico. Inoltre, la fisica delle alte energie non aveva concorrenti industriali: nessuna azienda privata avrebbe mai investito miliardi per cercare il bosone di Higgs. Le ricadute tecnologiche del CERN, certo enormi, sono un effetto collaterale, non lo scopo. Al contrario, l’IA è al centro della ridefinizione del mondo economico, culturale e del lavoro: ciò che la ricerca produce in questo campo entra immediatamente in interazione con la società e ne modifica i comportamenti, le regole e perfino il linguaggio.
C’è anche una notevole differenza epistemologica da considerare. La fisica delle alte energie è una scienza che vive di esperimenti monumentali con tempi di sviluppo lunghi a piacere: ogni esperimento è una cattedrale eretta per produrre dati che nessun altro può generare. L’IA, invece, si muove in un ecosistema ibrido, lungo un confine permeabile tra ricerca accademica e industria, dove i progressi si misurano nell’arco di pochi mesi e molto spesso i dati che alimentano i modelli sono generati dalle stesse industrie che li sfruttano. La sfida non è costruire una cattedrale dell’IA, ma moltiplicare le forze scientifiche esistenti, condividendo i dati, garantendo trasparenza e allineamento con i valori umani e un accesso equo alle risorse computazionali. In altre parole, sostenere in tempo reale il difficile equilibrio tra progresso scientifico, applicazione delle tecnologie e impatto sociale positivo. Un «CERN dell’IA» sarebbe un dinosauro nell’era dei mammiferi: un gigante fuori dal tempo e inadatto al nuovo ecosistema della ricerca e dell’innovazione.
Esiste, invece, più pressante che mai, l’urgenza di costruire e sostenere con la stessa velocità di questo secolo una rete di laboratori, università, istituzioni governative e partner industriali capaci di far avanzare l’IA in allineamento con i principi sociali e civili dei singoli Paesi europei. L’innovazione nell’IA richiede cicli di sperimentazione ed esecuzione velocissimi che si interfacciano con i tempi dell’industria, non strutture monolitiche che si muovono con i tempi della burocrazia comunitaria. Il vero ostacolo europeo è la mancanza di risorse e agilità: meccanismi rapidi e innovativi di finanziamento, progetti mission-oriented e investimenti importanti per la ricerca e la transizione responsabile dell’IA nel mondo reale. Costruire una rete efficace vale più della somma dei suoi componenti: è nelle connessioni che nascono nuove conoscenze e capacità collettive che nessuna istituzione può produrre da sola.
Un «CERN dell’IA» rischia di essere un monumento alla nostalgia, più che uno strumento per disegnare il futuro. Invece di guardare al passato glorioso della fisica delle particelle, è il momento di costruire nuovi meccanismi per sostenere la ricerca europea nel mondo del 2025.
