Falle nella rete di protezione, dai tempi lunghi ai fondi scarsi
La battaglia contro la violenza di genere è una corsa ad ostacoli che si combatte tra emergenze quotidiane e ritardi strutturali. C’è il 1522, numero gratuito e sempre attivo, con centinaia di centri accreditati che offrono ascolto, rifugio e sostegno, spesso grazie al lavoro dei volontari.
Ma a fianco dell’impegno sono ancora tanti, troppi, gli aspetti da rivedere, da migliorare, da implementare: misure cautelari che rischiano di scadere e tempi dei processi che possono allungarsi, carenza di personale e formazione ancora disomogenea tra forze dell’ordine, magistrati e operatori, braccialetti elettronici sempre più diffusi ma senza risorse per monitorarne l’effettivo utilizzo.
E in mezzo rimangono le donne, intrappolate tra paura, sfiducia e giudizio sociale. Segno che la violenza di genere è un fallimento collettivo.
I limiti della legge sui femminicidi e il rischio che scadano le misure cautelari
La proposta di legge sul femminicidio «ha un’idea ottima, cioè aumentare l’attenzione su un problema così importante». Il presidente dell’Associazione nazionale magistrati Cesare Parodi, da sempre attento alle tematiche della violenza di genere e già a capo del pool torinese delle fasce deboli, non ha dubbi. «Delle modifiche positive ci sono state», sottolinea. Ma c’è un aspetto che preoccupa.
La legge, che sta per essere approvata, ha aumentato le esigenze collegiali per molti reati, come lo stalking. Cosa significa? Che a decidere su un caso saranno tre giudici e non uno. «Questo si riflette sui tempi di fissazione delle udienze e di svolgimento dei processi»: inevitabile, infatti, fare i conti con gli scarsi numeri dell’organico, soprattutto per quanto riguarda le procure più piccole. «Così – continua Parodi – si crea un imbuto. E questi processi, che la legge stessa dice che devono essere prioritari, verranno celebrati in due o tre anni». Con il rischio della scadenza delle misure cautelari. Insomma, chi è in carcere o ai domiciliari per reati legati alla violenza di genere rischierà di tornare libero in attesa del processo. «Un pericolo per le persone offese».
Quotidianamente nelle procure italiane vengono aperti tra i venti e i trenta fascicoli per maltrattamenti, violenza, stalking e così via. E i magistrati sottolineano come sia necessario più personale per far fronte al lavoro.
Centri di aiuto e volontari con pochi finanziamenti
Il numero 1522, promosso dalla presidenza del Consiglio dei ministri-Dipartimento per le pari opportunità, rappresenta la prima mano tesa verso chi è vittima di violenza. Attivo 24 ore su 24, permette di contattare le operatrici anche in chat. E sul sito si può trovare la mappa degli oltre 400 centri accreditati, affidabili per esperienza e formazione: quindici in Abruzzo, due in Basilica, tredici in Calabria, sessanta in Campania, ventiquattro in Emilia-Romagna, otto in Friuli-Venezia Giulia, quarantacinque in Lazio, undici in Liguria, cinquantacinque in Lombardia, cinque nelle Marche, quattro in Molise. E ancora. Ventuno in Piemonte, ventotto in Puglia, tredici in Sardegna, trenta in Sicilia, ventiquattro in Toscana, cinque in Trentino, undici in Umbria, uno in Valle d’Aosta e venticinque in Veneto.
Ecco la geografia della rete anti-violenza finanziata perlopiù dal Dipartimento per le Pari opportunità che distribuisce le risorse alle regioni. A questo si aggiungono i fondi europei e le donazioni private. Fondi che servono per garantire servizi gratuiti e continui di accoglienza, supporto psicologico e tutela legale. «Siamo in una situazione di emergenza e i dati sui femminicidi e sui maltrattamenti lo dimostrano», spiega chi lavora nei centri. «Dovremmo essere più finanziati e soprattutto più sostenuti. La maggior parte di noi sono volontari, che dedicano il proprio tempo a stare vicino alle donne».
Mancano le linee guida e sono fermi i corsi per gli operatori
«Un conto è avere le norme, un conto è l’operatività concreta». Gli esperti lo ripetono in continuazione e portano l’esempio dei braccialetti elettronici, che sì, in questi anni si sono moltiplicati, ma non sono aumentate le risorse per il controllo del funzionamento né per la manutenzione. «Uno strumento importantissimo, per cui però servirebbero più investimenti», dicono.
Così anche sulla formazione. «Servono più operatori e soprattutto serve una formazione adeguata e completa, uguale per tutti», sottolinea chi lavora al fianco delle donne. Nel 2019, spiegano, era stata prevista una formazione omogenea per carabinieri, polizia e polizia penitenziaria (escluse, invece, la polizia locale e la guardia di finanza). «Le linee guida, però, non sono mai state emanate. Così come le linee guida nazionale previste dal Codice rosso rafforzato del 2023». La denuncia arriva dall’avvocata Anna Ronfani, vicepresidente del Telefono Rosa Piemonte: «C’è un ritardo normativo. Le forze dell’ordine, come i magistrati, gli avvocati, gli operatori dei servizi sociali e chiunque si relaziona a donne maltrattate ha una grande responsabilità. La formazione è una questione chiave, che fa la differenza. Non è solo una questione di quantità di operatori, ma anche e soprattutto di qualità. E la formazione, così com’è pensata, non funziona».
La solitudine di chi subisce abusi. «Ma la responsabilità è collettiva»
La lotta contro la violenza di genere non è una moda o un’ideologia, ma, sottolineano dai centri d’ascolto, è «una battaglia di civiltà da combattere insieme, uomini e donne». Il termine chiave è «responsabilità collettiva».
La donna maltrattata, umiliata, picchiata, perseguitata, raccontano gli operatori, spesso ha paura di denunciare per timore di non essere creduta. Non solo. In molte, che si sono rivolte ai centri anti-violenza per chiedere un aiuto, hanno spiegato di aver paura delle reazioni. Non solo di quelle del maltrattante, generalmente il compagno o l’ex fidanzato, ma anche delle persone che le circondano, parenti, amici, colleghi. Tante storie raccolte dai volontari raccontano del timore del giudizio degli altri e della società, di subire «una vittimizzazione secondaria», di essere additata, ancora troppo spesso e ancora in molti ambienti, come «quella che se l’è cercata. Che in fondo, qualcosa deve pur avere fatto per suscitare certe reazioni».
Tra gli alleati principali della violenza sulle donne ci sono il silenzio di chi le circonda, il girarsi dall’altra parte, il pensare che è un problema che non mi riguarda. C’è poi l’illusione che la situazione cambi e la violenza economica, subdola, complessa da individuare, che annienta la possibilità dell’autodeterminazione della donna. Questi aspetti coinvolgono tutti, nessuno escluso.
