16 Novembre 2025

Medio Oriente, nessuno combatte per sempre: un percorso inizia con il riconoscimento reciproco. Il precedente di Belfast

Gli «ismi» talvolta ci confondono. A fronte di tanti modi d’essere del pacifismo — nobile, ambiguo, perfino menzognero — c’è in fondo un solo modo per fare la pace.   con la fine della lotta armata e la nascita di un sistema di potere faticoso, sì, ma condiviso, in cui quelli che si sparavano addosso infine seggono ora gli uni accanto agli altri. L’assunto secondo cui «nessuno può combattere per sempre» valse per l’Ira, per l’esercito britannico e per le fazioni collegate. Perché non potrebbe valere per Israele e per i suoi arcinemici? Perché questa bolla di sospensione dal dolore, costruita dalla «coercitiva» diplomazia d’azzardo di Trump, non dovrebbe diventare una nuova stagione anche nel più tormentato quadrante mediorientale?
I paragoni, va da sé, sono scivolosi. Così, se è vero che Belfast e Gerusalemme hanno in comune un travaglio che prescinde ampiamente dalla razionalità politica e tocca sentimenti e famiglie, rancori ereditati da generazioni e convinzioni religiose inconciliabili, è altrettanto vero che il caso palestinese si trascina da oltre un secolo con peculiarità tutte sue. Già a fine Ottocento c’era chi, come Ahad Ha’am, metteva in guardia dall’illusione che la Palestina fosse una specie di terra di nessuno bisognosa solo d’essere colonizzata dai bravi agricoltori ebrei, ricorda Anna Foa.
Anche se «Washington ha sempre in mano il 99% delle carte», come diceva Sadat nel 1977 portando il suo Egitto alla pace con Israele, è probabile che la pax americana a Gaza incontrerà nel suo inverarsi giorno dopo giorno rallentamenti, contraddizioni, momenti di arresto se non di retromarcia.
Trump in Medioriente ha ottenuto un indiscutibile trionfo, certificato dalle ovazioni tributategli dalla gente di Tel Aviv, dagli onori alla Knesset e dalla standing ovation dei leader a Sharm. Ma lo slancio della prima fase è destinato ad affievolirsi. La fase due può saltare su ogni metro di arretramento dell’Idf e su ogni giorno di ritardo nel disarmo di Hamas, sulla difficoltà di garantire assistenza umanitaria fuori dal controllo dei terroristi e sulla vaghezza di un sistema di sicurezza da disegnare per intero. E tutto ciò, messo assieme, è ancora poca cosa rispetto all’immane lavoro da fare sulle popolazioni.
Se la Striscia, spianata quasi pietra su pietra, è da ricostruire secondo l’Onu nell’80% dei suoi edifici (inclusi ospedali e scuole), entrambe le comunità protagoniste del conflitto devono affrontare una lunghissima convalescenza interiore. Fermare il massacro è la premessa. Ma il passo decisivo perché il sangue non ricominci a scorrere è che ciascuno riesca a umanizzare l’altro: a «vederlo». Ed è un passo lunghissimo dopo il 7 Ottobre e la carneficina a Gaza. Wlodek Goldkorn ha osservato su Limes che fino alla fine del secolo scorso le due comunità, sia pure nelle storture d’un regime d’occupazione, si conoscevano e interagivano: e conoscere l’Altro in carne e ossa è già riconoscerne l’umanità pur nello status di nemico. L’uomo nuovo rinascerà dall’incontro col volto dell’Altro, sosteneva Emmanuel Levinas: un’epifania dopo la quale è molto più complicato uccidere. Quest’incontro è stato precluso ai ventenni palestinesi sigillati a Gaza dal 2007 sotto la dittatura di Hamas e sotto l’assedio di Israele. Ed è stato escluso dalla deriva ideologica per i ragazzi ebrei della Gioventù delle Colline che terrorizzano gli agricoltori arabi in Cisgiordania.
La vera fase due consisterà nell’emersione di una politica potente che laicizzi un problema troppo incrostato di opposti messianismi. Certo, molto potranno fare i Paesi arabi, tenendo sotto pressione Hamas; s’intravede con gli americani un robusto blocco di interessi economici in una versione aggiornata e più lucrosa degli Accordi di Abramo: ben venga, se serve. Moltissimo potranno fare gli israeliani, accompagnando una vera riforma dell’Autorità palestinese. Ma nulla di tutto ciò potrà avvenire senza un cambio di leadership che porti a un riconoscimento reciproco. Proprio la vicenda irlandese insegna che un interlocutore con cui valga la pena di dialogare deve essere rispettato in primis dalla propria gente: dunque è assai probabile che, nel nostro caso, debba uscire non dal retrobottega di una yeshiva ma da una galera israeliana. Il profilo di quest’uomo è già impresso nella vulgata palestinese ed è quello di Marwan Barghouti. Ma ci vuole un nuovo leader a Gerusalemme che abbia la forza politica di liberarlo a dispetto di cinque ergastoli e di uno stigma da terrorista (lo stesso che gravava, per dire, su Mandela in Sudafrica). «La pace si fa con i nemici», diceva Ytzhak Rabin, prima d’essere ammazzato proprio a causa di essa. La formula, del resto, è sempre la stessa, in ogni tempo e luogo. Ma in Israele richiede una dose supplementare di coraggio.

A.N.D.E.
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