Il modello americano del Ceo di Stato rischia di mettere in pericolo valori per noi fondamentali. Tre principi da applicare
Migliaia di persone hanno sfilato nelle grandi città americane gridando «No king», non vogliamo un re. Non esageravano. Trump governa il suo Paese come se ne fosse il sovrano. Molti pensatori a lui vicini ritengono che la democrazia sia inidonea a governare e propongono di sostituirla con un sistema di governo tecnocratico ed elitario. Curtis Yarvin, uno degli intellettuali più citati dal vice presidente J.D.Vance, presenza fissa nei media repubblicani, in un’intervista al New York Times del 18 gennaio 2025 ha teorizzato che il modello da seguire è quello delle grandi aziende che sono «monarchie in miniatura: funzionano perché qualcuno comanda e gli altri eseguono», mentre le istituzioni sono aziende fallite, la democrazia è solo una debole aristocrazia di esperti, giudici e professori. Una delle sue tesi centrali è che la democrazia americana sia una farsa irrimediabile e che serve un leader di tipo monarchico. Ha inoltre discusso con Michael Anton, Direttore della pianificazione politica del Dipartimento di Stato su come si potrebbe installare un «Cesare americano». Idee una volta marginali stanno sfacciatamente prevalendo.
Come siamo arrivati a questo punto? Dopo la fine dell’impero sovietico, i Paesi vincitori pensarono che ormai globalizzazione, multilateralismo e occidentalizzazione si sarebbero imposti su tutto il mondo. Nel 2014 l’allora vicepresidente degli Stati Uniti, Joe Biden, disse ai cadetti dell’accademia aeronautica: «La Cina non innova… Pechino non può impensierire veramente gli Stati Uniti dal punto di vista tecnologico. Non ne ha gli strumenti». Gli imperatori di Bisanzio, abbagliati dallo splendore delle proprie corone, non si accorsero della crescente potenza militare dei turchi e persero l’impero. Come quegli imperatori, abbiamo sovrapposto le nostre presunzioni alla realtà. Per reagire alla strage delle Torri Gemelle, abbiamo adottato l’idea della esportazione armata della democrazia, conclusa con la vergognosa fuga da Kabul. Eravamo convinti che l’espansione dei mercati avrebbe portato la crescita in tutto il mondo di una robusta classe media, la quale si sarebbe battuta per essere governata da regimi liberaldemocratici. Anche questa previsione è stata smentita, perché la democrazia ha bisogno del mercato, ma il mercato non ha bisogno della democrazia. Abbiamo concepito Internet come una inarrestabile forza liberale, che avrebbe concorso in misura determinante allo sviluppo dell’ordine mondiale liberaldemocratico.
Oggi dobbiamo difendere alcuni fondamentali diritti delle liberaldemocrazie proprio dagli sviluppi della rete. Pensavamo che l’Occidente avrebbe trionfato nel mondo; oggi esiste una robusta alleanza dei Paesi Brics e dei Paesi del cosiddetto Sud del mondo, a guida cinese e russa, che hanno tutti come unico comune denominatore l’antioccidentalismo. In sostanza sono venuti meno tutti i presupposti della tradizionale liberaldemocrazia e si è fatta strada, come accade in tutte le fasi di regressione democratica, una filosofia autoritaria che tende a soppiantare le tradizionali governance politiche con governance di tipo aziendale: concentrazione del potere, immediatezza e revocabilità delle decisioni, mercantilizzazione delle relazioni internazionali, sulla diplomazia prevale l’affarismo, sulle regole prevale la prepotenza, sulla buona educazione il brutalismo. Che altro è il Board of Peace per la Palestina se non una sorta di cda? Oltre agli Stati Uniti, altri Paesi decisivi come Russia, Cina, India, Turchia, Iran, Ungheria realizzano da tempo, in forme a volte più discrete, forme di governo fondate sulla concentrazione dei poteri nelle mani di una sola persona, il Ceo dello Stato. La regressione può andare ben oltre.
In casa nostra terreni fertili per la vittoria del modello Ceo possono diventare il mutismo della democrazia, l’infantile tendenza al litigio politico ad uso televisivo, la disaffezione dal voto. Saremo sconfitti se non ricostruiremo uno Stato capace di decidere. Dobbiamo superare la complessità amministrativa che asfissia chi lavora e chi produce, il sentimento di abbandono dei ceti meno protetti, la sensazione che i democratici si occupino dei diritti individuali di alcune minoranze e trascurino invece i diritti sociali di alcune maggioranze, accusa a volte non del tutto infondata . Rimettere al centro il futuro della società e la vita delle persone. In un Paese con forte calo demografico, scarso numero di laureati ed elevato tasso di abbandono scolastico, il futuro dipende dalla formazione del capitale umano. Molto si sta facendo per quanto riguarda la formazione primaria e secondaria. Per la formazione superiore occorre invece sostenere più vigorosamente le università tradizionali e fissare criteri di qualità per le università digitali che, correttamente impostate, possono costituire un ascensore sociale per i cittadini e un servizio essenziale per il Paese. Le une e le altre, tramite la via digitale, possono inoltre concorrere a formare i quadri futuri della Palestina e di tutti i Paesi beneficiari del piano Mattei. Per migliorare la vita delle persone, occorre uno Stato leggero ed efficiente. Trump affidò il compito a Musk, che operò come nelle aziende in difficoltà, prima licenziando i lavoratori e poi autolicenziandosi. Noi, più semplicemente, dovremmo mettere in campo tre principi fondamentali, validi per tutte le procedure: a) la macchina amministrativa non chiede al cittadino i documenti che già possiede, b) il silenzio assenso è generalizzato, c) il cittadino merita fiducia. Poi, chi sbaglia paga; oggi pagano tutti, tranne , a volte, quelli che sbagliano. La ripresa di un’azione liberaldemocratica deve tornare ai fondamentali della democrazia; i «No king» non bastano.
