12 Dicembre 2024

Nel primo governo del tycoon Roma fu penalizzata su carni, parmigiano e liquori

Tremano i governi di Cina, Messico e Canada, ma c’è allarme anche nel resto del mondo, a partire dall’Europa, visto che Donald Trump ha annunciato dazi del 20% su tutto l’import. A Washington ambasciate al lavoro per disinnescare le minacce, ma soprattutto per capire, vista la proverbiale imprevedibilità del neopresidente.
In pericolo sono soprattutto le migliaia di imprese americane che importano: rischiano di finire fuori mercato. Perché, anche se il leader conservatore continua a dire che i dazi sono tasse per i Paesi stranieri che esportano negli Usa, la realtà è che a pagare sono gli importatori che poi scaricano tutto sui prezzi per il consumatore americano.

Corsa alle esenzioni
È festa grande, invece, per gli studi di avvocati di K Street, motore dell’attività di lobby in Congresso, alla Casa Bianca, nei ministeri: durante il primo mandato di Trump i pochi funzionari dell’ufficio dello US Trade Representative annegarono sotto un diluvio di 500 mila domande di esenzione. Pratiche istruite attraverso i lobbisti di K Street ora subissati di richieste (e assegni in bianco) di imprenditori americani già in crisi di nervi prima ancora di sapere cosa rischiano realmente e se anche stavolta saranno ammesse eccezioni.
Sei anni fa ne furono concesse molte — in modo discrezionale, poco trasparente e senza possibilità d’appello in caso di rifiuto — con l’obiettivo di non danneggiare produttori americani che utilizzano manufatti stranieri quando in quei campi il Made in Usa non c’è o costa troppo.
Stavolta Trump potrebbe anche chiudere il rubinetto delle eccezioni sostenendo che le industrie hanno avuto diversi anni di tempo per riportare le loro produzioni in patria, ma non andrà così. Il presidente non rinuncerà all’esercizio del potere discrezionale dell’esenzione: ne può avere un vantaggio politico (secondo alcuni studi le imprese «immuni» dai balzelli in campagna elettorale sono state più generose coi repubblicani) ed è in linea col suo tratto essenziale, quello del dealmaker.
Basta ascoltare Scott Bessent, scelto come ministro del Tesoro: secondo lui l’amore per i dazi ostentato da Trump («la più bella parola del vocabolario»), è soprattutto uno strumento di pressione a fini negoziali: «Escalation per arrivare a una de-escalation». Tradotto: spaventare per poter trattare da posizioni di maggiore forza. E Trump oggi ha il coltello dalla parte del manico molto più che nel 2016, l’inizio del suo primo mandato: non è più un novizio mentre l’economia americana è in gran salute. Più forte di quella cinese col motore ingolfato, mentre l’Europa della crescita «zero virgola» (e della Germania in recessione) è sempre più debole, divisa e priva di leadership.
Ian Bremmer, il politologo di Eurasia, appena rientrato da un tour in Estremo Oriente, sostiene che Pechino è pronta a offrire la costruzione di fabbriche di auto elettriche negli Usa, un maggior acquisto di prodotti industriali e agricoli americani e a riempire ancor più le sue riserve di titoli emessi dal Tesoro di Washington, pur di evitare gli annunciati maxidazi al 60%.
E l’Europa? Rischia meno di Cina o Messico e non sarà colpita, come loro, fin dal primo giorno. Ma anche un 20% dilazionato spaventa un continente che non cresce, non riceve più energia a basso costo dalla Russia e dovrà ricostruire l’Ucraina. Nel Trump 1 l’Italia fu toccata solo marginalmente. Si disse per la simpatia di Donald per «Giuseppi» Conte. In realtà perché i dazi erano legati soprattutto al conflitto sull’Airbus, consorzio europeo del quale il nostro Paese non fa parte. Pagarono soprattutto Francia, Germania, Gran Bretagna e Spagna, mentre noi fummo penalizzati solo su parmigiano, liquori e alcune carni (ma salvammo i vini). Con Biden molti dazi congelati, ma non cancellati. Trump può mettere fine alla tregua, ma per capire quanto sia forte, al di là delle minacce, la sua voglia di protezionismo, bisognerà analizzare il significato delle scelte fatte da Trump nella notte: Bob Lighthizer, il suo «mastino» dei dazi, è rimasto fuori dal governo: non ha riavuto l’incarico di US Trade Representative (andato a Jamieson Greer che fu suo capo di gabinetto nel primo mandato di Trump), né quello di capo del National Economic Council della Casa Bianca, andato a Kevin Hassett. Forse è stato lui, quasi 80enne, a non sentirsela più di fare il globetrotter che negozia accordi in giro per il mondo. O forse il presidente, volendo mantenere un margine di flessibilità per possibili cambi di rotta, preferisce non farsi condizionare da un interprete troppo rigido, ideologico, del protezionismo.

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