16 Novembre 2025

Piano per Gaza: le diffidenze reciproche rendono difficile il cammino verso la pace

Donald Trump cerca sponde per il suo piano per Gaza. Ma nel Medio Oriente continua a scarseggiare la materia prima fondamentale per costruire un qualsiasi percorso di pace: la fiducia tra le parti. Almeno quel minimo indispensabile per iniziare a trattare seriamente. Il problema numero uno resta Hamas. L’organizzazione terroristica si è impegnata a cedere le armi e a non partecipare al governo politico della Striscia. Ma la convinzione diffusa tra i diplomatici arabi e occidentali è che i miliziani svuoteranno solo in parte i propri arsenali e cercheranno comunque di occupare un ruolo importante nella struttura di governo. Altrimenti non si spiegherebbe per quale motivo stiano procedendo a rastrellare e assassinare i loro nemici, tutti palestinesi, tra le macerie di Gaza.
Trump ha già minacciato ripetutamente l’intervento dell’America per disarmare Hamas. Ma senza spiegare come e quando, visto che, nello stesso tempo, ha precisato che non manderà i marines a riportare l’ordine. Intanto il presidente americano non sta incoraggiando la trasformazione e la crescita politica dell’Autorità Palestinese, guidata da Abu Mazen e da un gruppo dirigente che inizia vagamente a prendere forma. Negli ultimi giorni non c’è stato alcun contatto tra Washington e Ramallah. Niente, neanche una telefonata di routine. È normale? No, se si vuole davvero far crescere un’alternativa politica ad Hamas. Trump, però, non si fida di Abu Mazen.

In parte perché assorbe e replica la diffidenza, se non l’aperta ostilità, nutrite da Benjamin Netanyahu. L’esecutivo israeliano sta facendo di tutto per mettere concretamente in difficoltà la leadership palestinese. La dimostrazione più nota e più evidente è la mano libera lasciata ai coloni israeliani in Cisgiordania. Però ci sono altri strumenti meno visibili, ma decisamente dannosi. Non si capisce, per esempio, a quale titolo Tel Aviv abbia smesso, dall’aprile scorso, di rimborsare all’Autorità di Abu Mazen l’imposta sulle merci vendute dai palestinesi. Un prelievo simile alla nostra Iva che, in questi sei mesi ha fruttato 3,3 miliardi di dollari, tutti trattenuti dagli israeliani. Non basta, il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, capofila della destra messianica e ultra nazionalista, ha ordinato alle banche di non convertire le somme in valuta locale, lo shekel, provenienti dagli istituti di credito della Cisgiordania. Risultato? Quel poco di economia palestinese ancora attiva sta andando verso la paralisi. Nessuno può cambiare gli shekel in dollari, euro e neanche dinari giordani, cioè le valute utilizzate per pagare gli stipendi e per commerciare sui mercati internazionali. Smotrich sostiene, senza però esibire le prove, che i fondi in arrivo dalla Cisgiordania nascondano operazioni di riciclaggio da parte dei terroristi.
Tuttavia, per sgomberare il campo da ogni sospetto, l’Autorità palestinese dovrebbe prendere una posizione più netta sul disarmo di Hamas. Secondo la ministra degli Esteri, Varsen Aghabekian Shahin, i guerriglieri islamisti vogliano la garanzia che non saranno colpiti, una volta abbandonati i razzi e i kalashnikov. Ma la garanzia è già prevista esplicitamente nel sesto dei venti punti del piano Trump, sottoscritto anche da Hamas. Eccolo: «I componenti di Hamas che si impegneranno a coesistere pacificamente e a smantellare i loro armamenti saranno graziati. Ai membri di Hamas che desiderano lasciare Gaza sarà garantito un passaggio sicuro verso i paesi di accoglienza».
Lo scenario si sta complicando anche sul versante dei Paesi arabi. Il Pentagono sta cercando di formare il nucleo dei Paesi disposti a partecipare alla «forza di stabilizzazione» a Gaza. Finora, però, il giro delle consultazioni non ha dato i risultati attesi. Ci risulta che solo tre Paesi, Azerbaigian, Indonesia e Pakistan, siano disponibili a inviare subito militari, senza porre particolari condizioni. Trump, però, conta soprattutto su Egitto, Turchia e Qatar. Senonché i leader di questi Stati, cioè Al-Sisi, Erdogan e Al Thani, hanno fatto sapere alla Casa Bianca che si muoveranno solo se la missione sarà coperta da un mandato dell’Onu. Come dire: nessuno dei tre vuole avventurarsi in un’impresa al buio. Non si fidano fino in fondo delle intenzioni di Netanyahu e, pertanto, chiedano che siano fissate con più rigore le cosiddette «regole di ingaggio», cioè le funzioni concrete della «forza di interposizione». Partendo dalla domanda più semplice: in quali circostanze i soldati saranno autorizzati a usare le armi?
Il mandato dell’Onu, però, richiede il consenso di Cina e Russia, le super potenze con diritto di veto nel Consiglio di Sicurezza, insieme con Stati Uniti, Francia e Regno Unito. Washington ha avviato solo un confronto generico con Mosca e Pechino sulla questione mediorientale. In un clima, manco a dirlo, di diffidenza reciproca.
Infine l’Europa. Le diplomazie del Vecchio Continente, compresa quella italiana, sono riuscite a inserirsi nella stesura del «piano Trump», cercando di non escludere del tutto l’Autorità palestinese dal futuro politico di Gaza. Ora, il passo successivo sarà provare a rilanciare la soluzione dei «due popoli, due Stati»,sulla spinta della «Dichiarazione di New York», promossa da Emmanuel Macron con il principe saudita Bin Salman e approvata il 12 settembre scorso dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, con 142 voti a favore, inclusa l’Italia. Ma per ora Trump preferisce allinearsi a Netanyahu, semplicemente ignorando la questione.

A.N.D.E.
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