Adeguandosi alla linea della segreteria, la minoranza del partito rinuncia alla propria vocazione liberale
Tra l’incudine e il martello. Forse la posizione più difficile, meno invidiabile, in vista del referendum sulla separazione delle carriere dei magistrati, è quella della componente riformista, la minoranza, del Pd. Se sceglie il «sì» a una riforma di impronta liberale come quella, riafferma la sua identità e la sua vocazione riformista ma se lo fa trasforma anche se stessa in un gruppo di «social traditori», di sabotatori della «causa». La quale causa consiste nel tentativo di usare il referendum per dare una spallata al governo Meloni. Un bel dilemma. Probabilmente se si facesse un sondaggio rigorosamente anonimo fra i dirigenti del Pd verrebbe fuori una maggioranza favorevole alla riforma Nordio. Ma una cosa sono le verità «private», quelle che si conservano ben chiuse nel proprio cuore, un’altra cosa sono le verità «pubbliche», quelle in cui conta il gioco di squadra, la disciplina di partito, gli obiettivi politici da perseguire. Quelli che, della minoranza, si piegheranno al diktat della segreteria, ovviamente, cercheranno per lo meno di salvare la forma non potendo salvare la sostanza: non si lanceranno in intemerate sulla deriva autoritaria, le minacce alla democrazia, l’attacco alla Costituzione, eccetera eccetera. Si limiteranno a dire, più o meno a mezza bocca, che il loro «no» alla riforma dipende dal fatto che essa non è in grado di risolvere le gravi disfunzioni del nostro sistema giudiziario.
Probabilmente seguiranno la strada indicata da Matteo Renzi: mantenere le distanze dalla Associazione Nazionale Magistrati (sulle cui posizioni è invece schiacciata la segreteria) battendo contemporaneamente sul tasto della inutilità della riforma. A proposito di Renzi: è comprensibile che egli dica che se Meloni perde il referendum deve andare a casa. Perché è quanto accadde a lui quando venne sconfitto nel referendum costituzionale del 2016. Sarà però curioso vedere come farà Renzi ad astenersi. Lo ha potuto fare al momento del varo della legge. Astenersi nel referendum è più difficile. Se vota «sì» rischia di rafforzare il detestato governo Meloni. Se vota «no» si trova in compagnia di quelle procure che gli diedero così tanto filo da torcere in passato. Qualcuno, a quel punto, potrebbe persino evocare la «sindrome di Stoccolma».
Al di là del difficile scoglio del referendum sulla separazione delle carriere la posizione dei riformisti del Pd (come quella del partito di Renzi) è oggi assai precaria. E lo resterà se e fin quando l’asse politico del Pd rimarrà così spostato a sinistra, fin quando l’alleanza a tutti i costi con i 5 Stelle continuerà ad essere la sua priorità. Con effetti a tutto campo. Dalla giustizia ai temi del lavoro, a quelli dell’immigrazione o della politica estera. È dura sopravvivere, disporre di quelli che un tempo si definivano «spazi di agibilità politica», se devi fare i conti con una maggioranza del partito che è distante anni luce dalle tue posizioni. Anche perché non è più questo il tempo degli indipendenti di sinistra. Che è esattamente quanto viene di fatto evocato quando si immagina che il Pd possa andare alle elezioni politiche usando una qualche «copertura a destra», un cespuglio di volenterosi riformisti a caccia di voti centristi. Non funziona più così. È la leadership del partito che deve (dovrebbe) avere la forza e la capacità di aggregare un fronte ampio in grado di erodere i consensi dello schieramento di destra. Che è quanto Romano Prodi ha detto e ripetuto.
Tutto questo per dire che la minoranza, i riformisti del Pd, è e resterà in una posizione assai difficile se la leadership del partito non cambierà ridefinendo il proprio posizionamento e le proprie politiche. Cosa però che, a meno di imprevisti, non è plausibile che avvenga prima del 2027, prima delle prossime elezioni politiche. In caso di sconfitta del Pd allora la minoranza riformista tornerebbe in gioco. O per lo meno, tornerebbero in gioco i sopravvissuti essendo probabile che, al momento della formazione delle liste, la segreteria scelga di affondare i denti, di non fare prigionieri. Fino a quel momento continuerà a mancare al Paese una forza di opposizione che, messi da parte slogan, rumori e furori, sappia davvero incalzare il governo, mettere a nudo i suoi veri punti di debolezza. Che è quanto sanno fare e fanno le opposizioni efficaci, quelle che non si limitano a chiamare a raccolta i già convinti, quelle che, mostrando debolezze e inadempienze del governo, riescono a persuadere elettori che lo sostenevano a cambiare bandiera, a votare per l’opposizione. Un terreno sul quale la componente riformista del Pd si troverebbe a proprio agio. Ma solo se avesse il sostegno di una dirigenza impegnata a remare nella stessa direzione.
Nel frattempo, mosse e contromosse saranno condizionate dall’agenda politica. E oggi, nell’agenda politica del Paese campeggia il referendum sulla separazione delle carriere. Nelle curiosa e molto italiana storia delle riforme costituzionali risulta che quelle approvate hanno sempre fatto più male che bene al Paese: la modifica dell’immunità parlamentare, la pasticciatissima riforma del Titolo Quinto, la demagogica riduzione del numero dei parlamentari. I buoni tentativi, come la riforma costituzionale proposta da Matteo Renzi nel 2016, hanno sempre fatto fin qui una brutta fine. Se sarà questo anche il destino della separazione delle carriere ciò confermerà che il «riformismo» in Italia gode di pessima salute. La vita grama e precaria dei riformisti del Pd risulterà allora solo la spia di un problema assai più grande e generale.
