13 Dicembre 2024

Il Medio Oriente ha oscurato nei media lo scontro in Ucraina e quasi non si sente parlare dell’Armenia

In meno di due anni, tre guerre hanno risvegliato quasi contemporaneamente i fantasmi della Storia del Novecento, alimentando nelle popolazioni coinvolte la paura collettiva della sopraffazione, della pulizia etnica, del genocidio. Il conflitto in Medio Oriente ha oscurato nei media quello in Ucraina e quasi non si sente parlare dell’Armenia, ma queste tre guerre apparentemente lontane nella loro genesi hanno in comune la Storia di terre contese, di popoli calpestati, di identità negate e ingigantiscono la paura che questa Storia continui a ripetersi.
L’invasione russa ha risvegliato nelle vecchie generazioni di ucraini e trasmesso nei giovani il ricordo delle persecuzioni staliniane, dell’Holomodor, l’immensa carestia, le deportazioni di contadini, i milioni di morti. Gli armeni Nagorno-Karabakh, scacciati dalla loro enclave dall’esercito dell’Azerbajan, hanno rivissuto le pagine del loro genocidio, mai riconosciuto dai vicini turchi, il «Medz Yeghern», la grande strage dei cristiani. Gli ebrei — è cronaca di questi giorni — avvertono un senso di insicurezza dopo l’attacco perpetrato da Hamas in confini che ritenevano protetti da un esercito potente e tecnologicamente sofisticato. La reazione perpetrata a Gaza, che molti ritengono eccessiva, ha suscitato proteste in tutto il mondo e risvegliato i germi dell’antisemitismo. Ma anche i palestinesi, da decenni vessati, decimati, deportati, hanno rivissuto la condanna collettiva che nella loro storia va sotto il nome di «Nakba».
Qui non si discute l’unicità dell’Olocausto, ma il fatto che Shoa, Holomodor, Nakba, Medz Yeghern abbiano in comune una dimensione esistenziale di difesa dell’identità collettiva e di resistenza contro un nemico esterno — invasore o usurpatore o terrorista — che nega il diritto a vivere nella terra dei padri. «I morti non parlano, i vivi ammutoliscono, per questo le tragedie si ripetono», ammoniva lo scrittore Ivo Andric pensando alle carneficine balcaniche. Le tragedie del passato tendono appunto a ripetersi e questa dimensione esistenziale di trauma storico collettivo supera la dimensione della politica, ne diventa strumento di consenso, nelle mani delle elite politiche e militari.
Non è casuale il riferimento costante al Nazismo, come suprema ideologia di annientamento di un popolo, ma anche come bolla malefica sul nemico che ci minaccia. Così «nazisti» diventano i russi, gli azeri, i guerriglieri di Hamas. «Denazificare Gaza» è l’imperativo di Israele. Ma anche Putin, a ben vedere, ha parlato di «denazificazione» dell’Ucraina e ha giustificato l’invasione con la pretesa difesa della terra russa accerchiata dall’Occidente e dalla Nato.
Questo scenario di paure e di spettri ha stravolto le funzioni specifiche degli Stati come garanti di confini, sovranità e sicurezza collettiva. Esiste soltanto una logica di guerra che rafforza a dismisura il potere di chi lo detiene e — anche nelle democrazie — la discrezionalità quasi personale delle decisioni. Ma più la logica di guerra pervade gli apparati e la società civile, più la memoria delle tragedie passate ritorna prepotentemente nella vita quotidiana, alimenta la paura del vicino, l’odio etnico e religioso nei confronti di chi, almeno fino al giorno prima, ci viveva accanto. Ancora più grave il fatto che, come un sasso nello stagno, questa paura, corroborata da ignoranza e propaganda, si riverbera senza ragione apparente anche laddove non si combatte e non c’è ragione di combattere. È quanto sta avvenendo in molte città europee.
Non dovrebbero mancare e non mancherebbero in realtà gli antidoti a questa spirale terribile. In primo luogo, la capacità della società civile di tenere viva la memoria. Ma non soltanto oggi, sull’onda emotiva dei conflitti, ma in tempo di pace, quando invece il ricordo è spesso ridotto a un esercizio retorico di anniversari e celebrazioni. In secondo luogo, una più decisa presenza delle istituzioni internazionali per colmare la debolezza degli Stati e l’irresponsabilità o inadeguatezza delle leadership. Ma è improbabile che ciò avvenga se l’arbitro è paralizzato da veti incrociati e costantemente delegittimato quando assume una posizione.
Crimini di guerra e crimini contro l’umanità si moltiplicano e difficilmente saranno puniti. Violazioni del diritto internazionale sono all’ordine del giorno, ma difficilmente verranno condannate e forse nemmeno riconosciute, nonostante l’evidenza di conflitti in cui la posta in palio è appunto lo spazio d’influenza territoriale a spese delle popolazioni. È evidente per Russia, Iran, Turchia e Azerbajan, direttamente o per procura. È un dato storico per Israele e Palestina. Donbass, Gaza e Nagorno-Karabakh, con la loro scia di morti e distruzioni, sono a loro volta lo «scalpo» di una partita più ampia fra grandi potenze e potenze regionali che si snoda sulle rotte energetiche e sulle risorse naturali. Così il cerchio si chiude. Le tragedie del passato si ripetono, ma oggi sarebbe più corretto, benché cinico, definirle danni collaterali.

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