13 Dicembre 2024

Via libera bipartisan alla missione Aspides. Segnale positivo. Troppe volte la politica estera è ostaggio di contesa politica interna

Ogni tanto, nel buio del settarismo politico che affligge entrambi gli schieramenti parlamentari, un raggio di luce rischiara la via dell’interesse nazionale. Sarebbe stato un delitto se il Parlamento si fosse diviso sul sostegno ai militari italiani in missione nel Mar Rosso, esposti al fuoco dei guerriglieri Houthi e dei loro droni di provenienza iraniana. Mai come quando le forze armate di un Paese sono impegnate in un teatro di guerra, vale il motto britannico: «Right or wrong, my country».
E infatti ieri maggioranza e opposizione hanno superato l’ultimo ostacolo che impediva di votare insieme per il sì alla missione Aspides; nel testo del governo un avverbio, «eminentemente», affiancava il cruciale aggettivo «difensiva», e faceva così sospettare ai Cinquestelle che la missione non lo fosse «esclusivamente». La maggioranza ha rimosso l’ambiguità: il ministro degli Esteri Tajani ha chiarito a Montecitorio che la missione è «soltanto» difensiva. E ha dato così saggiamente il via libera alle risoluzioni di Pd e Cinquestelle. A votare contro sono rimasti solo i sei deputati di Bonelli-Fratoianni, ostili a quella che definiscono un’«escalation»; decisione sfortunata, visto che è avvenuta nel giorno stesso in cui i non certo «difensivi» pirati Houthi hanno colpito una nave portacontainer svizzera battente bandiera liberiana e diretta a Gibuti, che non c’entrava insomma nulla con quella guerra di Gaza cui dicono di ispirare le loro azioni terroristiche. Speriamo che il soprassalto di coesione nazionale che ha portato ieri la Camera alla quasi unanimità non sia però una rondine, e che faccia invece primavera. Purtroppo da noi la politica estera è troppo spesso ostaggio di contesa politica interna, o addirittura viene usata come acchiappavoti.
Entrambi gli schieramenti non danno piene garanzie di unità, continuità e congruenza circa il ruolo internazionale del nostro Paese. Nel centrodestra la politica estera è saldamente nelle mani della premier Meloni e del ministro Tajani, entrambi, seppure con differenti percorsi, ancorati alle alleanze occidentali e atlantiche; e quindi sono più innocue le frequenti «mattane» salviniane, il quale sbanda ogni tanto per Putin, sempre per Marine Le Pen, e sempre più spesso per Trump, senza rendersi conto che il vicepresidente del Consiglio di un Paese alleato non può permettersi manifestazioni di tifo nelle elezioni altrui (pensate che succederebbe da noi a parti invertite). Nell’aspirante «campo largo», invece, è proprio la politica estera ad essere oggi il vero discrimine che impedirebbe a Pd e Cinquestelle di governare insieme, se pure vincessero le elezioni domattina. Perché sul punto più controverso, l’Ucraina, le posizioni non sono solo diverse, ma di fatto opposte: entrambi vogliono la pace, però gli uni senza la resa di Kiev, gli altri anche con. A differenza di nazioni con una storia unitaria più lunga o con radici comuni più antiche, da noi la politica estera è stata per molto tempo la principale discriminante della legittimazione. Dal 1948, e per trent’anni, la cosiddetta «conventio ad excludendum» del Pci era basata proprio sul «fattore K», e cioè sulla collocazione internazionale di quel partito, incompatibile con quella dell’Italia. Fu Enrico Berlinguer, di cui ricorrono i quarant’anni dalla morte, a mettere fine alla dipendenza da Mosca, e a dichiarare a Giampaolo Pansa sul Corriere della Sera nel 1976: «Non voglio che l’Italia esca dalla Nato… mi sento più sicuro di qua». Ma l’antica tara resta iscritta nel Dna della nostra vita politica, e questo spiega almeno in parte perché il nostro è uno dei Paesi europei nei quali i sentimenti dell’anti-americanismo e del filo-putinismo sono più diffusi nell’opinione pubblica. Eppure l’anno che è appena iniziato rischia di essere per le forze politiche italiane il più importante dal 1948, da questo punto di vista. Sarà infatti denso di prove del nove, di esami di politica internazionale il cui esito sarà decisivo per la compattezza e la credibilità del nostro Paese nel mondo (bene che ha ricaschi finanziari ed economici, oltre che morali).
Alcuni di questi test sono già prevedibili: il primo verrà dopo le elezioni europee, quando capiremo se la maggioranza di governo riuscirà oppure no a stare insieme anche nella maggioranza che si formerà all’Europarlamento, nel voto sulla guida della Commissione europea. A novembre poi l’Italia dovrà prendere le misure alla nuova presidenza imperiale, e farà davvero tutta la differenza di questo mondo se alla Casa Bianca resterà Biden, come in cuor suo si augura Giorgia Meloni, o tornerà Trump, come vorrebbe Salvini. Ma un altro paio di momenti della verità, oggi non prevedibili perché dipendono strettamente dall’andamento della guerra in Ucraina e in Medio Oriente, arriveranno; e potranno spaccare i due poli, o ricomporli in compagini di governo attendibili. Dovessimo fare una previsione, e sulla scorta delle esperienze passate, non saremmo perciò così ottimisti sulla tenuta della (quasi) unanimità registrata contro i pirati Houthi. Ma i raggi di luce aprono il cuore alla speranza; e dunque, mai dire mai.

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