16 Novembre 2025

L’annullamento del vertice Trump-Putin potrebbe rivelarsi un fatto positivo: ora il dossier è in mano a chi realmente tratta

Apparentemente siamo di fronte all’ennesimo buco nell’acqua. L’annullamento (o il rinvio) dell’incontro di Budapest tra Donald Trump e Vladimir Putin è parso a tutti la prova del fatto che, a più di nove mesi dall’insediamento del nuovo presidente degli Stati Uniti, le trattative per una pace o una duratura tregua in Ucraina, sono tornate al punto di partenza. Per giunta, dopo che abbiamo assistito a una serie di ultimatum della Casa Bianca al Cremlino di cui si è perso il conto. Mentre quegli ultimatum svanivano nel nulla, i russi con le loro bombe hanno continuato a mietere vittime su vittime (ieri in un asilo di Kharkiv, qualche giorno prima alla stazione di Pokrovsk, ma l’elenco potrebbe essere infinito).E l’universo pacifista, fortunatamente per Putin, s’è distratto talché nelle piazze occidentali nessuno, tranne esigue eccezioni, si dà pena per le stragi in Ucraina che si protraggono da quasi quattro anni.
Gli analisti si domandano come mai per Trump è stato relativamente semplice mettere attorno a un tavolo i grandi coinvolti anche alla lontana nella crisi israelo-palestinese e sia invece così arduo ottenere un analogo risultato — quantomeno in vista di un cessate il fuoco — in Ucraina. La risposta più immediata è che tra i grandi convocati a Sharm el-Sheikh c’era chi, a cominciare dallo stesso Trump, aveva il potere di fermare la mano di entrambi i contendenti.
Mentre per ciò che concerne l’Ucraina non c’è nessuno che abbia la reale possibilità di intervenire su Putin con una decisiva forza di persuasione. Gli si può far notare, come si è fatto, che i suoi successi sul campo di battaglia sono molto, molto scarsi soprattutto se messi in relazione al numero di morti che ha subito tra i suoi ranghi militari. Che l’Ucraina ha messo a punto un apparato bellico che le dà la possibilità di resistere anche al di là dell’aiuto occidentale (di cui ha comunque bisogno). Che l’impegno profuso nel Donbass rende l’autocrate del Cremlino subalterno, ogni giorno di più, a Xi Jinping ponendolo quasi in una condizione di vassallaggio. Che gli europei, chi più chi meno, restano compatti al fianco di Zelensky.
Ma sono argomenti che, ad ogni evidenza, non sortiscono effetto.
Rivivere un’epopea come quella di Stalin o di Pietro il Grande è agli occhi di Putin un’esperienza che non ha prezzo. Per giunta viverla in un Paese al quale i dazi imposti dall’Occidente non hanno provocato danni irreparabili. Né gli eroici oppositori sono in grado di infastidirlo più di tanto. E le congiure di palazzo (se mai ci sono state dopo quella di Evgenij Prigozin) sembrano essersi esaurite. Tutte queste cose insieme lo portano a vivere in una condizione che considera paradisiaca. Tanto più che nel mondo non afferente all’Europa (e nemmeno tutta) o alla Nato (anche qui, neanche tutta) Putin è accolto come un capo di Stato al cui cospetto vengono srotolati tappeti rossi.Del mandato di arresto nei suoi confronti emesso dalla Corte penale internazionale il 17 marzo del 2023 generalmente ci si dà carico solo per studiare i modi di aggirarlo. Le piazze di Mosca e San Pietroburgo, le uniche che gli interessano, appaiono tranquille. E anche dalle altre città russe non si ha notizia di sommovimenti. Per quel che lo riguarda potrebbe andare avanti così all’infinito.
Eppure, è possibile aspettarci una positiva sorpresa. Presto, di qui a qualche settimana. Proprio per il fatto che vengono annullati gli incontri di facciata. Quegli incontri vengono disdetti perché il «dossier» ucraino è passato dalle mani di Trump a quelle ben più competenti del segretario di Stato statunitense Marco Rubio, il quale ne discute con il ben addestrato ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov. È questo che può accendere una luce di speranza. Europa e Nato, ancorché affaticate, hanno mantenuto un sorprendente livello di compattezza. La fragilissima tregua d’armi in Israele può evolversi in qualcosa di più stabile solo a patto che il resto dell’emisfero occidentale venga anch’esso stabilizzato (e il discorso investe, anche se in maniera quasi invisibile, anche la Russia). Zelensky mostra una disponibilità fino a ieri inimmaginabile e sembra aver imparato l’arte di attutire la non dissimulata antipatia del presidente americano nei suoi confronti nonché di disinnescarne l’iracondia. È il momento di Rubio e Lavrov che silenziosamente possono fare qualcosa.
Quel che si è prodotto a Gaza con la fine dei bombardamenti sui civili palestinesi e la restituzione degli ostaggi, non la si potrà chiamare «pace» ma dà l’impressione di essere un importante passo avanti lungo la via di un’evoluzione positiva. Passo dopo passo. E sembra difficile, forse impossibile, che si torni alla terribile situazione di un mese fa. Pur se vanno messi nel conto altri incidenti che faranno temere un risucchio all’indietro. Ora qualcosa del genere è possibile costruirla anche in Ucraina. Non sarà la «pace giusta» che in molti abbiamo invocato, né una pace cosiddetta «sporca». E forse non la potremo neanche chiamare «pace». Ma il compito affidato ai concreti Rubio e Lavrov è quello di accantonare i deliri di Trump e Putin per porre la prima pietra di un accordo che sottragga la Russia ai sabotaggi di questa o quella raffineria e che risparmi ai bambini ucraini il pericolo di restare sepolti tra le macerie del loro asilo. Per ora il mondo intero si accontenterebbe di questo. Il resto verrà poi.

A.N.D.E.
Panoramica privacy

This website uses cookies so that we can provide you with the best user experience possible. Cookie information is stored in your browser and performs functions such as recognising you when you return to our website and helping our team to understand which sections of the website you find most interesting and useful.