13 Dicembre 2024
Borsa economia USA

La strategia per il Medio Oriente di Joe Biden è in grave difficoltà su tutta la linea. L’America, è la preoccupazione della Casa Bianca, sta perdendo credibilità davanti al mondo intero

Male con Netanyahu. Male con l’egiziano Al-Sisi. Ancora peggio con gli Ayatollah. La strategia per il Medio Oriente di Joe Biden è in grave difficoltà su tutta la linea. Sappiamo che il recente viaggio nella regione compiuto dal Segretario di Stato, Antony Blinken, non ha scalfito la posizione del premier israeliano, deciso a sferrare una pesante offensiva anche a Rafah, l’ultima zona cuscinetto nella Striscia di Gaza. Altre stragi di civili in arrivo, quindi.
Il presidente americano, riferiscono i media statunitensi, è a un passo dalla rottura con il governo israeliano. Sarebbe uno strappo drammatico, di portata storica. Ma non è il solo rischio in campo. Stando a fonti da noi consultate, risulta che anche l’incontro al Cairo tra Blinken e il presidente Al-Sisi, lo scorso 7 febbraio, sia stato ruvido oltre ogni previsione. Gli Usa forniscono un miliardo e trecento milioni di dollari di aiuti all’anno all’Egitto, contribuendo, insieme con Arabia Saudita ed Emirati Arabi, a tenere in piedi il Paese. È logico, quindi, pensare che Blinken si aspettasse maggiore collaborazione. Gli abitanti di Gaza premono sulla frontiera di Rafah, con i carri armati israeliani alle spalle e, davanti, il muro costruito dagli egiziani.
Blinken ha chiesto di far passare almeno i profughi più deboli, offrendo l’assistenza americana per allestire campi di accoglienza destinati ai rifugiati. La risposta del ras egiziano è stata brutale: non se ne parla neanche. Una volta decollato l’aereo di Blinken, Al-Sisi ha dato ordine di schierare 40 carri armati lungo la linea di confine e ha avvertito gli israeliani: non spingete i palestinesi nel Sinai, se non volete rompere le relazioni con noi. E pazienza se la rete mafiosa che si annida tra i doganieri e i militari egiziani sia disponibile a far transitare dal valico di Rafah singoli rifugiati, purché pronti a pagare. La tangente oscilla tra i 5 mila e i 10 mila dollari a testa. Ufficialmente l’Egitto teme che tra i civili accolti possano nascondersi miliziani di Hamas o attivisti dei Fratelli Musulmani, nemici giurati del governo di Al-Sisi. Ma per Biden questa giustificazione è ormai inaccettabile, quasi quanto l’ostinazione di Netanyahu.
La crisi di Gaza sta affossando la reputazione di Biden non solo agli occhi delle minoranze arabo-americane che potranno pesare nel voto presidenziale in alcuni Stati chiave degli Usa, come il Michigan. L’America, è la preoccupazione della Casa Bianca, sta perdendo credibilità davanti al mondo intero. Si sta trasformando in una super potenza scarica, che non riesce a incidere neanche sulle scelte degli alleati più stretti. Quelli legati da comuni valori democratici e quelli a libro paga.
Biden si era presentato alla comunità internazionale come un leader di pace. Nel suo discorso di inaugurazione, pronunciato il 20 gennaio del 2021, aveva scomodato i «Better Angels», gli Angeli migliori, i custodi dell’epopea americana. Si era indirettamente paragonato ad Abraham Lincoln,vale a dire il presidente che, come scrive Joe Meacham, storico di riferimento, nonché consulente di Biden, «salvò l’anima dell’America», sconfiggendo gli schiavisti. Oggi a tre anni di distanza, l’«anima dell’America» è di nuovo in discussione. Probabilmente nessuno negli Stati Uniti, nell’Occidente e nel resto del mondo, si sentirebbe di paragonare Biden a Lincoln. Al contrario: il «Commander in chief» è assediato dalle insinuazioni sulla sua lucidità mentale, ossessionato dal ritorno distruttivo di Donald Trump. A Washington l’irritazione è diventata rabbia. A torto o a ragione i più stretti collaboratori dello Studio Ovale ritengono che l’Amministrazione abbia gestito bene la doppia crisi: Ucraina e Gaza. Gli americani hanno offerto sostegno materiale agli ucraini aggrediti dai russi e agli israeliani straziati da Hamas. Nello stesso tempo hanno lavorato per circoscrivere il conflitto, mantenendo, sotto traccia, un canale aperto per il negoziato. Nelle ultime settimane questo schema è andato a pezzi. E non solo per l’atteggiamento dei nemici: la pantomima di Vladimir Putin; le pretese irricevibili di Hamas. Ma anche per l’oltranzismo ingestibile degli amici: Netanyahu, Al Sisi.
Le brutte notizie non finiscono qui. L’escalation nel Mar Rosso, con gli attacchi anglo-americani alle basi degli Houthi, hanno azzerato le possibilità di un dialogo, sia pure per interposto Qatar, con l’Iran. Finora, anche nella capitale americana, prevale l’idea che né Biden né gli ayatollah vogliano uno scontro diretto. Ma al Dipartimento di Stato c’è chi sostiene che la guerra con Teheran non sia mai stata così vicina. Naturalmente speriamo che non sia così. L’irrigidimento iraniano, però, è sempre più visibile. L’intelligence Usa, per esempio, ritiene che Teheran stia accelerando la marcia verso la costruzione della bomba atomica. Altro segnale: nei giorni scorsi, il vice ministro degli esteri iraniano, Ali Bagheri Kani, ha tenuto un giro di colloqui in alcune capitali europee. Tutto riservato, tutto coperto. A quanto pare sarebbe passato anche da Roma. In ogni caso è stato durissimo con gli interlocutori: il governo iraniano vuole piegare Israele ed è certo della vittoria. Nessun margine di dialogo.
La diplomazia europea, tuttavia, continua a muoversi sulle corsie laterali. Francesi, tedeschi, italiani e spagnoli hanno chiesto ai vertici delle «Laf», le forze armate libanesi, di sondare le intenzioni degli Hezbollah, le milizie sciite collegate all’Iran. Il riscontro sarebbe, almeno per ora, parzialmente positivo: il «partito di Dio» proseguirà con azioni di disturbo, ma non avrebbe intenzione di aprire un altro fronte di guerra con Israele.
È forse l’unica nota incoraggiante in un scenario così fosco.

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