Elezioni comunali

La vittoria passa attraverso l’unità nelle coalizioni. Ma il banco di prova saranno le Regionali in autunno

Il segnale più positivo è la percentuale dei votanti che non cala dopo anni di inesorabile declino della partecipazione. Si tratta di un’inversione quasi simbolica, ma va registrata. Per il resto, le elezioni di ieri restituiscono un orizzonte locale che difficilmente può fornire indicazioni nazionali, riguardando solo due milioni di elettori. Ma qualcosa dice. Se non altro perché riconsegna Genova a un centrosinistra con dentro tutti: in nome di un’unità che fatica a concretizzarsi nel voto politico. E ripropone, all’opposto, il tema di una maggioranza di destra che non perde colpi nei sondaggi, ma non convince nelle città. L’immobilismo dell’elettorato nazionale e la fluidità di quello locale suggeriscono dunque più domande che risposte. E soprattutto le proiettano sui cinque referendum che si svolgeranno l’8 e 9 giugno: in particolare per vincere la sfida proibitiva del quorum sopra il 50 per cento. E ancora di più sul voto regionale che si dovrebbe tenere in autunno in sei regioni: Veneto, Valle d’Aosta, Toscana, Marche, Campania e Puglia.
Quel test, preceduto da polemiche e tensioni sul terzo mandato dei «governatori» uscenti, chiamerà alle urne diciassette milioni di elettori.
Il vero «tagliando» di fine legislatura per il governo di Giorgia Meloni sarà quello; idem per le ambizioni della segretaria del Pd, Elly Schlein, e del leader del M5S, Giuseppe Conte. Il rischio, per le opposizioni, è di considerare il voto di Genova come il laboratorio e l’anticipo di un «cartello» da riproporre per il voto politico. Si è già visto nel 2022 che una cosa è proporre un’alleanza «di tutti», si chiami «campo largo» o «progressista», negli enti locali. Altra è tentarla per conquistare il governo del Paese.
Tra l’altro, c’è un dettaglio non trascurabile che getta un velo di ambiguità sul risultato nel capoluogo ligure. La sindaca eletta non è né un’esponente del Pd né dei Cinque Stelle. Si tratta di un’atleta, Silvia Salis, scelta probabilmente proprio perché il suo profilo politico non ha una connotazione partitica. Se questo è lo schema, a livello nazionale riproporrà una competizione più che strisciante tra Schlein e Conte: senza contare i possibili veti rispetto a forze minori, come IV di Matteo Renzi o Azione di Carlo Calenda, e a forze di sinistra pura e dura come Avs.
Ma per il momento, il mantra dell’unità può essere celebrato nel segno della vittoria a Genova e a Ravenna, città storicamente «rossa».Mentre le divisioni producono ballottaggi, come a Taranto e Matera. Ma nella città pugliese il paradosso riguarda in modo smaccato la maggioranza nazionale. Il tema, fino a ieri sera, non è stato chi avrebbe dato il sindaco alla città, ma quale delle due liste di destra avrebbe affrontato al ballottaggio il candidato delle sinistre. Perché a Taranto uno schieramento è stato formato da FdI, FI, più altri alleati; l’altro da una lista civica dominata dalla Lega.
L’equilibrio tra i due candidati della destra ha reso la situazione paradossale. C’è da pensare che uniti avrebbero ottenuto una vittoria probabile al primo turno, avendo raggiunto ognuno circa un quarto dei voti, rispetto a un terzo dell’avversario a sinistra. Anche in questo caso, non si può non vedere un riflesso estremizzato a livello locale della competizione nazionale tra FdI, Forza Italia e Lega; e le sue possibili conseguenze negative. Di nuovo, riprodurre sul piano nazionale queste dinamiche sarebbe a dir poco azzardato.
Rivelerebbe un istinto suicida della maggioranza che nessuno prevede. L’avvertimento che arriva alla premier e ai suoi due vice dall’elettorato, tuttavia, non va sottovalutato. Esiste un tema persistente di selezione dei candidati nelle grandi città e in generale negli enti locali. E si conferma la difficoltà, per chiunque, di ritenere che i consensi e la popolarità alle Politiche si trasferiscano quasi automaticamente sul piano locale: tanto più se nel governo nazionale si consumano vendette e scontri di potere, destinati a rispecchiarsi in città e regioni.
Tutte le rilevazioni mostrano un elettorato sostanzialmente stabile. Il governo Meloni non sarà più in luna di miele col Paese, perché alcuni problemi si aggravano. Ma le opposizioni gli regalano una posizione di rendita oggettiva. Le rendite, però, vanno meritate; e trasformate in strategia comune attenuando distanze e scarti che alla fine possono provocare strappi quasi per inerzia. Basta pensare alla politica estera: un tema che accomuna, nella contraddizione, ogni schieramento.

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