La resurrezione di Donald: a sostenerlo c’è l’idea che il lavacro popolare sani da ogni vizio di legittimità e da ogni conflitto d’interessi
L’ultimo segnale è il cappellino, «Trump 2028», esibito anche dal terzogenito del presidente. Nella vulgata del popolo Maga la faccenda è più che un’ipotesi. Trump aspira a fare ciò che i dittatori del XXI secolo, Putin e Xi Jinping, hanno già fatto: perpetuarsi al potere sfidando la Costituzione. Il che, nel suo caso, significherebbe puntare al terzo mandato, vietato dal ventiduesimo emendamento. Percorso impervio, forse persino truffaldino, e tuttavia evoluzione naturale di un leader che si ritiene legibus solutus in virtù del suo rapporto con l’anima dell’America.
Quando Steve Bannon lo incontrò per la prima volta, quindici anni fa, provò a spiegargli cosa fosse un populista. «Sì, sono un popularista», convenne The Donald. L’ideologo dell’alt-right tentò invano di correggerlo, salvo capire poi il vero senso del termine trumpiano: che non era stare col popolo, ma essere sempre più popolare. L’aneddoto, raccontato da Bob Woodward, rende molto della connessione prepolitica, sentimentale, fra il controverso presidente e la sua gente. Poco importano i sondaggi, che adesso lo penalizzano: lui li ha sempre sovvertiti. Poco conta lo «schiaffo» canadese: lui ha incassato ben altro.
Prendersela oggi con Trump, per il suo cesarismo compiacente verso Putin sull’Ucraina e la manomissione delle garanzie democratiche in patria, è esercizio vano. Pur braccato da pesanti ombre, il presidente Usa s’è collocato in temibile sintonia con una modernità, diremmo, di ritorno. È risorto, dopo eventi che politicamente avrebbero sepolto chiunque, perché a sostenerlo c’è l’idea che il lavacro popolare sani da ogni vizio di legittimità e da ogni conflitto d’interessi (finanche se si danza sul crinale della cleptocrazia, come nell’altalena dei dazi). A tenerlo a galla è uno spirito dei tempi torvo e per taluni persino terrificante; tuttavia, assai visibile a chi appena voglia guardare la realtà per ciò che è e non per come la vorremmo: e non soltanto negli Stati Uniti.
La storia non si ripete pedissequa ma neppure fa sconti. La libertà è un fardello. Il suo esercizio comporta scelte faticose, complesse. Mussolini pensava che i suoi contemporanei ne fossero «stanchi». Hitler che i tedeschi volessero risposte semplici e che lui si fosse solo premurato di offrirgliene.
Trump non è né Hitler né Mussolini, ovvio (benché Al Gore abbia azzardato il paragone). Ma il suo profilo, connesso a un tratto della «personalità autoritaria» rilevato a suo tempo in molti americani da Theodor Adorno, corrisponde adesso a una nuova egemonia: che va affermandosi almeno dalla metà degli anni Dieci in Europa e in America. Essa nasce quale reazione a una globalizzazione iniqua, alla cultura woke e a flussi migratori potenti dall’emisfero meridionale del pianeta. In poche parole, come risposta alla paura (della miseria, della diversità, del caos), un’ondata di autocrazie s’è già levata da anni in più parti del mondo. Che l’obiettivo sia una forma di egemonia e non di mero dominio si coglie, ad esempio, proprio nella manomissione che l’amministrazione americana sta facendo di tutti gli istituti ed enti, anche culturali come gli atenei o umanitari come le Ong, su cui s’è edificata l’egemonia liberale Usa da Kennedy in poi.
Dando seguito alle scansioni ipotizzate da Samuel Huntington, sarebbe questa la terza onda autocratica nella storia di noi moderni, succeduta come le precedenti a una fase di allargamento della democrazia. Il politologo americano ne aveva individuate due: la prima provocata dai totalitarismi, tra il 1922 e il 1942, e la seconda dalla moltiplicazione negli anni 60 e 70 di regimi militari in Sudamerica, Asia e Africa (ma anche in Grecia e in Turchia).
Che la fine del terzo ciclo democratico fosse in atto da un pezzo era piuttosto palese. Secondo l’ultimo rapporto del centro studi svedese V-Dem, per la prima volta in vent’anni il numero dei regimi autocratici è superiore a quello delle democrazie: 91 contro 88. Inoltre, il modello di democrazia liberale cui siamo tanto legati è oggi il meno diffuso al mondo: vige solo in 29 Paesi su 179. Se questo è lo zeitgeist, ciò che pare riguardare noi occidentali più da vicino è la modalità di transizione verso l’autocrazia. In declino forme plateali come golpe o brogli, si punta a metodi più sottili: è la vecchia metafora della democrazia simile a un pollo, al quale va strappata una piuma per volta onde evitare che quello si ribelli e si metta a strillare. Dal 2006 in poi i nuovi autocrati hanno danneggiato soprattutto libera stampa e società civile, lasciando in vigore le elezioni multipartitiche: in casa Europa, Orbán in Ungheria e Fico in Slovacchia insegnano.
Tuttavia, a cambiare ciclo serve sempre un elemento: il fattore umano. Non esiste autocrate capace di imporsi senza la collaborazione, l’apatia o l’opportunismo dei suoi compatrioti. Se un imbonitore come Nigel Farage, dopo avere trascinato gli inglesi nella disastrosa Brexit con fandonie smentite dalla storia, può tornare in testa ai sondaggi, il problema non riguarda Farage ma gli inglesi. Se in Francia la questione sulla filorussa Marine Le Pen diventa giudiziaria, per i fondi distratti alla Ue, e non politica per tutt’altri fondi, ottenuti a suo tempo grazie a Putin, il problema non tocca Le Pen ma i francesi tutti. Così, su Trump, Anne Applebaum ammonisce gli americani: «Le persone e le istituzioni che dovrebbero controllare il potere esecutivo si rifiutano di frenare questo presidente. Ora abbiamo un tiranno di fatto». Alla fine, il problema è sempre il pollo: che si svegli, almeno per il 2028.