Il Cremlino usa l’attendismo della Casa Bianca per portarsi in vantaggio e ritardare la fine del conflitto

«Nessuna via d’uscita». I tipici cartelli della metropolitana di Mosca che segnalano la direzione sbagliata ai passeggeri vengono usati nei talk show più schierati a favore del Cremlino come avviso a futura memoria. Per i principali nemici del momento, noi europei.«Accomodatevi nella sala d’attesa» è il consiglio che riserva a tutti i nostri leader la Komsomolskaya Pravda, uno dei giornali più scatenati nel tifo contro un eventuale esito positivo dei negoziati sull’Ucraina. «E intanto, respirate l’odore del Nuovo ordine mondiale».
Non sono soltanto esagerazioni della propaganda. In queste due settimane così frenetiche, l’opinione pubblica russa ha sempre espresso scetticismo, quando non aperta ostilità, verso i colloqui di ogni ordine e genere tesi a trovare una ricomposizione dell’attuale conflitto. E siccome il pensiero collettivo per forza o per amore aderisce a quello di Vladimir Putin, appare chiaro come queste due settimane di montagne russe non abbiano avvicinato la pace di un singolo passo.
Era il 10 maggio quando la coalizione dei volenterosi in visita a Kiev intimava al presidente russo l’accettazione di un cessate il fuoco della durata di trenta giorni, minacciando nuove sanzioni in caso di un suo rifiuto. Sembrava una mossa fatta in accordo con Donald Trump. Quella stessa notte, Putin eludeva l’ultimatum «convocando» per il 16 maggio una sessione di colloqui a Istanbul. Per la prima volta dal maggio 2022, russi e ucraini sarebbero tornati a parlarsi in presenza. La proposta era soprattutto un modo per mostrare al mondo che è il Cremlino a condurre il gioco. Ma dopo giorni di balletto intorno alla improbabile presenza a Istanbul di Putin, che non ha manco risposto all’invito che gli aveva rivolto Volodymyr Zelensky, i negoziati hanno prodotto qualche risultato minimo, come lo scambio di prigionieri, anche civili, da entrambe le parti. Passi da formica, subito cancellati dalla telefonata del 19 maggio, che ha dato l’impressione di un riallineamento persino frettoloso del presidente americano alle posizioni di Mosca. Niente tregua, e vaghe promesse su nuovi colloqui e memorandum «per una pace futura».
La guerra continua, l’unica certezza è questa. Il Cremlino non firma alcun cessate il fuoco e non ci pensa nemmeno a rinunciare ai territori conquistati finora, anzi. Se non altro, il mondo ha dovuto ricordarsi del fatto che la Russia concepisce la diplomazia come una prova di forza. Prima rimanda al mittente le minacce, tali sono state considerate l’ultimatum europeo e l’invito provocatorio del presidente ucraino a un incontro che tutti sanno non avverrà mai. Poi aggira gli eventuali punti scabrosi dove rischia di essere messa sotto pressione.
«Da Yalta a oggi, non c’è nulla di nuovo», ha scritto il quotidiano economico Kommersant. Almeno in apparenza, ad Istanbul è stata molto ridimensionata la richiesta della demilitarizzazione dell’Ucraina. E la denazificazione, altra pietra miliare dell’aggressione russa, è ormai un flatus vocis che risuona solo nelle peggiori trasmissioni di propaganda. Questo non significa certo che la delegazione guidata dal falco Vladimir Medinsky si sia mostrata disponibile o ragionevole, tutt’altro. Le minacce sono state molto più delle minime aperture che potevano indurre a un cauto ottimismo. Ma anch’esse fanno parte del tipico modo di agire della diplomazia russa, mirato a ottenere l’accordo più vantaggioso instillando nella controparte la sensazione che opporsi non serve a nulla, significa solo rinviare una dolorosa resa alle condizioni di Mosca.
Il colloquio telefonico tra Putin e Trump ha reso ancora più forte la convinzione generale che Mosca sia uscita rafforzata da questa fase così convulsa. «Abbiamo vinto la mano più importante della partita a poker globale» ha titolato Izvestia, che del Cremlino è quasi l’organo ufficiale. «La posizione di Trump non potrebbe essere più vantaggiosa per noi», ha ammesso il Kommersant. Il presidente degli Stati Uniti è riuscito infatti a mostrarsi riluttante sull’imposizione di nuove sanzioni, e al tempo stesso desideroso, quasi impaziente, di riprendere normali relazioni con la Russia.
Meglio non poteva dirlo il vecchio Yuri Ushakov, consigliere di Putin per gli affari internazionali. «Il presidente americano ha ribadito in modo piuttosto emotivo come lui ci consideri uno dei partner più importanti del suo Paese in materia commerciale ed economica». Il dubbio che negli ultimi tempi aleggiava sul Cremlino è subito evaporato. Già convinto di essere in ampio vantaggio sul campo di battaglia, Putin sembrava diviso tra una fine del conflitto, ipotesi a lui poco gradita, e il timore di perdere sul nascere l’alleanza con l’America, destinata nei suoi piani a riempire i vuoti lasciati dall’Europa.
Mostrandosi interessato a proseguire il riavvicinamento con Mosca, a prescindere da quello che sarà il destino dell’Ucraina, Trump gli ha risolto il dilemma. E gli ha concesso di continuare a temporeggiare ponendo nuovi ostacoli sulla strada dei negoziati, come quello sulla illegittimità di Zelensky, nuovamente citato dal ministro degli Esteri Sergey Lavrov. Nessuna via d’uscita, quindi. Ma per Kiev, per i suoi alleati e per chi si ostina a sperare nella pace. Non certo per la Russia.

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