La difesa della sicurezza dello Stato ebraico è un carattere identitario della Germania post-nazista, ma la distruzione nella Striscia alimenta la richiesta di una posizione più netta

Il Denkmal für die ermordeten Juden Europas, il Monumento alle vittime ebree in Europa, meglio noto come Holocaust Mahnmal, Memoriale dell’Olocausto, è composto da 2.711 stele di cemento simili a sarcofaghi, disposte su un’area di circa 19mila metri quadrati. Questo labirinto nel cuore di Berlino è la forma fisica della complessità del modo dei tedeschi di rapportarsi a Israele.

La formula Merkel
L’impegno del Paese nei confronti della sicurezza dello Stato ebraico è un carattere identitario della Germania post-nazista. Angela Merkel l’ha codificato nella formula Staatsräson (ragione di Stato), nello storico intervento alla Knesset nel 2008: «Chi minaccia Israele minaccia noi». È sulla base di questo principio che i funzionari di Governo giustificano la prudenza nelle critiche all’alleato (per la verità mai mancate), da quando è cominciata la guerra a Gaza.
Vi si è attenuto l’ex cancelliere, Olaf Scholz, e altrettanto fa il suo successore, Friedrich Merz, uno dei pochi leader europei ad aver dichiarato che la Germania non arresterebbe il premier Benjamin Netanyahu, se arrivasse in visita nel Paese, contravvenendo al mandato di cattura della Corte penale internazionale dell’Aja.
Non capita solo in Germania che chi critica Israele sia accusato di antisemitismo, ma in nessun Paese come in Germania l’accusa di antisemitismo è altrettanto grave. Il conflitto di coscienza, collettiva e individuale, non ha risparmiato nemmeno il partito della sinistra, Die Linke.

Ma qualcosa sta cambiando
La guerra senza fine nella Striscia e la portata della distruzione stanno però cambiando le cose. Secondo un sondaggio di fine maggio, l’80% dei tedeschi condanna le azioni del Governo israeliano e a Berlino, come in tante capitali, vanno in scena manifestazioni pro-Pal. Un dibattito si è ora aperto sulla decisione dell’Esecutivo di non sottoscrivere la lettera di condanna firmata da una trentina di Paesi, all’inizio della settimana.
La ministra socialdemocratica, Reem Alabali Radovan, ha subito criticato questa scelta. Altrettanto hanno fatto altri alti esponenti del suo partito, convinti che la Shoah non possa essere un alibi per non vedere cosa succede a Gaza, nemmeno in Germania. Dodici ex ambasciatori che hanno prestato servizio in Medioriente, hanno inviato il 24 luglio una lettera aperta al ministro degli Esteri, Johann Wadephul, nella quale chiedono che Berlino si associ a quell’iniziativa.
Non solo. All’interno del ministero degli Esteri cresce il disagio per le posizioni dell’Esecutivo. Secondo il settimanale Spiegel, sarebbe stato creato un gruppo online al quale avrebbero aderito circa 130 funzionari del ministero, soprattutto giovani, che chiedono un cambiamento di rotta e che le armi inviate dalla Germania a Israele non possano essere utilizzate per azioni che rappresentano crimini di guerra o violazioni del diritto internazionale.

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