La Casa Bianca ha cancellato le iniziative legate alla Dei, chiuso le agenzie federali e avvertito le aziende (anche quelle non americane). I dati però dimostrano che “aprire” significa alimentare il merito, non soffocarlo. E che la produttività, di Paesi e imprese, cresce

In un mondo che corre veloce e rifugge la complessità, partire da un acronimo (e provare a difenderne il senso e l’utilità comuni) significa predisporsi a perdere. E se dall’altra parte c’è la Casa Bianca, armata di ordini esecutivi e possibili rappresaglie, la sfida appare già definita. Eppure, quando negli anni Sessanta, in America, si cominciò a parlare di DEI – ecco l’acronimo: Diversity, Equity, Inclusion (diversità. equità, inclusione) – l’idea era quella di promuovere una società che fosse «merit based», fondata sul merito, e quindi «color blind», non influenzata dal colore della pelle o dalle sfumature delle scelte di chiunque fosse meritevole.
La nuova Amministrazione repubblicana ha invece bandito ogni riferimento alla Dei in nome del merito, stabilendo che quei tre sostantivi insieme vanno a stringere una catena e finiscono per condizionare, ingabbiare, infine discriminare. Di conseguenza, già prima che finisse l’inverno, sono stati cancellati tutti i programmi legati alla Dei nelle agenzie federali, sono stati chiusi un centinaio di contratti tra governo centrale e aziende per il valore di circa 1 miliardo di dollari, mandati avvertimenti precisi ai gruppi internazionali affinché si adeguassero, licenziati centinaia di manager e funzionari coinvolti in iniziative pro-equità tra generi, generazioni, orientamenti, culture, origini e background socioeconomico. Perché il primo nodo da sciogliere è questo: non parliamo soltanto di uomini & donne, bensì di ogni diversità rispetto a un canone considerato “norma”, cui viene attribuito un valore neutro e superiore.
Ora proviamo a sfilarci da ogni schieramento e osserviamo come vanno le cose. Nelle imprese, per esempio, cioè in uno spazio che punta a risultati presto misurabili. Ci sono ricerche, curate da atenei come Università Bocconi o da società globali come McKinsey, secondo le quali avere al proprio interno – dalla base al board – più varietà garantisce probabilità di profitto maggiori: del 25% nel primo caso, del 36% nel secondo.
Non c’è quindi il rischio di una “distrazione” di energie. Al contrario, aprirsi all’interno è un investimento. Perché attrai una platea più larga di competenze e di conseguenza alzi l’asticella della competizione; sviluppi un ambiente che si rivelerà favorevole al riverbero di capacità liberate dal timore di essere letteralmente “fuori luogo”; saprai trattenere a lungo nel tempo le professionalità migliori. Come dire: chi si sente riconosciuto, senza temere di rompere le righe con la propria storia o personalità, darà il meglio di sé. Una comunità di professionisti più varia, inoltre, non potrà che comunicare meglio con gli stakeholder, cioè i clienti acquisiti e potenziali, ovunque e comunque saranno.

Un solo macro dato tra i tanti possibili (e in ogni campo): se tutti i Paesi raggiungessero uno standard di equità uomini-donne, la crescita del Prodotto interno lordo mondiale sarebbe di 13 trilioni di dollari. Un dato invece nazionale: se l’occupazione maschile e femminile fosse pari, il Pil italiano registrerebbe un balzo del 12% entro il 2050. Alla questione etica, che – certo – può essere riletta se non ribaltata mutando i punti di vista sul mondo, si sovrappone una questione economica forse più chiara e stringente. Se la Dei è caduta, suggerisce qualcuno che punta a ridurre i danni lungo le rotte transatlantiche, cambiamo pure nome ma non rinunciamo alla sostanza.
Il problema (forse il bello della vita?) è che non esistono canoni per sempre, ci sono norme generate dalla consuetudine, a volte alimentate dall’inerzia, ma senza riscontri “in natura”. L’unica norma in natura è l’assenza di norme, come sa dimostrare Telmo Pievani, filosofo evoluzionista e divulgatore straordinario.
Non dovremmo avere paura di cambiare come individui e di innovare nei gruppi di appartenenza. È una scommessa che prevede rischi a breve – succede quando qualcosa o qualcuno smuove e sposta – ma contiene una promessa di resilienza.

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