Fonte: Repubblica

merkel

di Beatrice Delvaux

Bloccati alla frontiera tra Grecia e Macedonia, alcune centinaia di migranti hanno tentato con la forza di riprendere il loro cammino in Europa. Dopo aver sfondato il cordone della polizia greca, iracheni e siriani hanno cercato di distruggere la barriera di filo spinato che segna il confine. La polizia macedone ha reagito con lanci di lacrimogeni. Nei filmati si vedono uomini e donne, si sentono le urla dei bambini terrorizzati.
È accaduto pochi giorni fa in Europa. Non al di là dei nostri confini ma da noi, sul nostro suolo, all’interno stesso di quel che resta dell’Unione europea, e che alcuni ancora cercano di salvare. Non in molti, e forse non più maggioritari. Si potranno contare domani, al vertice tra Ue e Turchia. Ma anche se la conta risulterà ancora positiva per la coesione europea, sappiamo quanto valgono questi accordi: nulla, dato che a Vienna c’è chi ne ha fatto strame, definendo la propria politica e applicandola ipso facto, per proteggersi dietro nuove barriere di filo spinato. E gli altri? E i greci? Peggio per loro, se ne facciano una ragione. Troppo brutale? Eccessivo? Smettiamola di fare i moralisti. Oggi bisogna avere il coraggio di farsi carico delle conseguenze di quanto si fa o si omette di fare: questo il messaggio inviato alla Grecia da chi ha deciso di chiudere la frontiera macedone, e da tutti coloro che sostengono questa decisione.
Ci siamo sempre chiesti cosa avremmo fatto o detto negli anni 1930-40. Ebbene, è proprio a questa domanda – anche se certo in circostanze diverse – che oggi siamo chiamati a rispondere. Non cerchiamo di eluderla. Oggi in Europa non si può stare al tempo stesso con la Merkel o con Orbán: o si sta da una parte, o dall’altra. Bisogna scegliere. Del resto, è ciò che tutti i leader europei stanno facendo, ai vari livelli di potere, costretti dagli avvenimenti. E la via che sceglieranno a questo bivio resterà scritta nella storia.
Siamo dunque concordi per fare della Grecia, ormai prossima a piegarsi sotto una pressione insostenibile, «non più un luogo di transito ma un terminal», come ha detto un dirigente nazionalista? O al contrario siamo d’accordo col presidente di un partito liberale che ha ribattuto: «Non si gioca a Stratego sulla pelle delle persone»? Diciamo con Angela Merkel che «quando qualcuno chiude le sue frontiere costringe l’altro a soffrire; e non è la questa mia Europa», o stiamo con Viktor Orbán, che blocca unilateralmente i suoi confini?
Austria, Macedonia, Croazia, Slovenia e Serbia hanno fatto la loro scelta. E noi? È venuto il momento di decidere da che parte stare. Come la vogliamo quest’Europa? Capace di pensare e agire collettivamente, o preoccupata innanzitutto di interessi particolari, a rischio di far saltare la costruzione europea? Un’Europa che veda i rifugiati come invasori e pensi soprattutto a premunirsi contro di loro, o voglia dar prova di umanità a fronte di quest’ondata migratoria? Disponibile a gestire la diversità, o in ansia per la sua identità culturale? In grado di farsi carico delle soluzioni, ancorché impopolari, di ripartizione dei flussi, e di spiegarle alla popolazione, o passivamente a rimorchio dell’opinione pubblica? Oramai nessuno più può restare affacciato al balcone.
Lo schieramento dei “duri” attacca e ridicolizza “gli ingenui”, dei quali Angela Merkel sarebbe la capofila. Ma questa è manipolazione populista. Non è questione di duri o di ingenui, bensì di due concezioni dell’Europa, di due diverse visioni dell’etica e della società. La scelta di campo non segue la linea di demarcazione tra destra e sinistra, ma dipende dalla coscienza di ciascuno, come si può vedere dalle crescenti lacerazioni in seno ai partiti e alle stesse famiglie. Certo, per Angela Merkel la presa di coscienza del problema dei rifugiati è stata tardiva. Per lunghi mesi, anche la cancelliera tedesca riteneva che Lampedusa fosse un problema tutto italiano. Ma al punto in cui siamo – e questo, sarà la storia a dirlo – sta mantenendo la barra dritta, anche a rischio di perdere la sua popolarità e il suo potere. E non perché abbia «un cuoricino sensibile», ma in nome dell’Europa in cui crede, del primato dell’accoglienza per chi cerca un rifugio: “wir schaffen das” (“ce la faremo”) , in difesa di una gestione condivisa dei grandi problemi del mondo.
«Il mio dannato dovere, il mio obbligo è operare affinché l’Europa trovi una strada comune – passando per il rifiuto di sacrificare uno dei suoi membri». «È responsabilità della Germania impegnarsi perché questo problema sia affrontato e risolto insieme da tutti i Paesi, e non a discapito di uno di essi».
Nella sua biografia di Erasmo da Rotterdam, Stefan Zweig commentava: «La missione dell’europeo non è quella di prestare ascolto agli egoismi nazionali o alle vane pretese di signorotti o capi settari, bensì di insistere sempre su ciò che lega i popoli e li unisce, affermando la preminenza dell’europeo sul nazionale, e dell’umanità sulla patria».
Come si vede, Angela Merkel non è in cattiva compagnia.

Béatrice Delvaux è editorialista del quotidiano belga Le Soir.
(Traduzione di Elisabetta Horvat
)

A.N.D.E.
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