Sfiducia in Parlamento. Marine Le Pen chiede nuove elezioni e Mélenchon rilancia: il presidente lasci
Per la prima volta nella storia della Quinta Repubblica francese nata nel 1958, un governo è caduto non perché i partiti lo hanno sfidato approvando una mozione di censura, ma perché il premier ha preso l’iniziativa di chiedere la fiducia, e non l’ha ottenuta. Un record che va attribuito a François Bayrou.
Accanto a tante ragioni lontane e profonde della nuova crisi politica attraversata dalla Francia, c’è anche un elemento molto personale legato alla figura del premier, che questa mattina va all’Eliseo a rassegnare le dimissioni nelle mani del presidente Emmanuel Macron.
Bayrou ieri ha chiesto la fiducia — «la prova della verità», l’ha definita — per responsabilizzare il parlamento e i francesi sullo stato di emergenza delle finanze pubbliche. Forse, quado ha annunciato questa mossa, il 25 agosto scorso, sapeva già che avrebbe perso e si è immolato per senso dello Stato; forse ha semplicemente sbagliato i calcoli, contando su un appoggio di Marine Le Pen e dei socialisti che invece gli è subito venuto a mancare.
Un autogol clamorosoper un centrista dell’esperienza di Bayrou, da mezzo secolo navigatore della politica francese, ma rimasto a Matignon per soli nove mesi. Conquistata la poltrona di premier il 13 dicembre scorso, ieri alle 19 Bayrou è stato battuto all’Assemblea nazionale con 35 astensioni, 194 voti a favore e ben 364 contrari, più ancora del suo impopolare predecessore Michel Barnier. Nell’ultimo discorso Bayrou ha denunciato lo stato dei conti pubblici e condannato la destra che prova a incolpare gli immigrati— «non sono la causa di tutto» — e la sinistra che vorrebbe tassare i più ricchi: «Chiedete ai nostri vicini britannici. Il risultato è stato l’esplosione dei prezzi immobiliari a Milano» (una settimana fa Bayrou aveva accusato l’Italia di attirare gli espatriati con il «dumping fiscale», provocando la reazione indignata del nostro governo).
Ma le soluzioni proposte da Bayrou non hanno convinto. Esce di scena, almeno per ora, forse per prendere la rincorsa e presentare una sua improbabile candidatura alle prossime presidenziali.
E adesso? Il presidente Macron ha preso atto e «nominerà in pochi giorni» il successore, ma il punto è che l’Assemblea nata dopo le elezioni anticipate dell’estate 2024 è tuttora ingovernabile, nessuna maggioranza è all’orizzonte, e chiunque sia il prescelto rischia di cadere alla prima occasione, che sarà la presentazione del budget in ottobre.
Per questo Marine Le Pen chiede nuove elezioni, «e se avremo la maggioranza assoluta andremo a Matignon per raddrizzare il Paese»; e il suo rivale-alleato antisistema Jean-Luc Mélenchon rilancia chiedendo non solo un nuovo voto per i deputati, ma anche le dimissioni di Macron e una presidenziale anticipata, perché tanto «non voteremo mai a favore di un premier socialista sostenuto dai macronisti».
Le consultazioni ufficiali non sono ancora cominciate che già sono partiti i veti di tutti contro tutti, cosa che rende molto difficile l’impresa di nominare un premier che abbia qualche possibilità di arrivare a Natale. Girano i nomi di molti ministri attuali: il preferito da Macron, Sébastien Lecornu (Difesa), Catherine Vautrin (Lavoro e Sanità), Éric Lombard (Economia), e Gérald Darmanin (Giustizia); oppure un ritorno a destra, come Barnier, con l’altro ministro Bruno Retailleau (Interno), o una svolta a sinistra con Pierre Moscovici (attuale presidente della Corte dei Conti).
Ancora, molti auspicano una figura «tecnica» all’italiana, sopra le parti. Per evitare che qualsiasi proposta venga bruciata comunque, l’ex premier Gabriel Attal chiede di passare per un «negoziatore» che trovi un «accordo di interesse generale» prima di identificare il premier che lo metterà in pratica. Una specie di «incarico esplorativo» inedito per una politica francese che scopre di assomigliare, sempre di più, all’Italia di un tempo.