L’attesa degli abitanti dopo due mesi di assedio. Ma dietrofront e procedure paralizzano la distribuzione
«Arrivano la farina e il gasolio, preparatevi», dicono a Zad e Albanah, le due panettiere che hanno un forno a Deir al-Balah. Le donne corrono al negozio che è chiuso da un mese. Puliscono il pavimento dalla terra che si insinua sotto la fessura della porta. Strofinano il tavolo «su cui lavoriamo da oltre vent’anni», raccontano. Lo tirano a lucido in attesa della farina — l’oro bianco, la chiamano lì — che da undici settimane non entra a Gaza. Fanno il pane, la pita. Contrordine: «Forse domani». Dopo oltre due mesi di assedio totale, Benjamin Netanyahu ha concesso l’ingresso degli aiuti umanitari nella Striscia perché altrimenti «Israele perderà i suoi sostegni all’estero e non riusciremo a ottenere la vittoria». Nelle stesse ore, da una parte il primo ministro autorizza l’inizio dell’offensiva di terra e intensifica i bombardamenti per placare la sete di vendetta degli alleati di estrema destra, e dall’altra apre il valico di Kerem Shalom — «vigna della pace» — a l’amico Donald Trump che pare essersi accorto della devastante crisi umanitaria in corso nella Striscia accerchiata.
Distribuzione a ostacoli
Ieri, secondo l’esercito israeliano, sono entrati 93 camion delle Nazioni Unite, ma ancora nessuno è arrivato a destinazione, riferisce l’Onu. Da dentro, ci dicono che in realtà i tir sarebbero ancora solo cinque: due dei quali riempiti di sacchi di plastica per i cadaveri. Cinque o 93 sono niente: prima della guerra erano 600 al giorno. Il meccanismo di distribuzione degli aiuti è molto complesso. I tir che superano il confine devono essere svuotati e ri-sottoposti a ispezione delle autorità israeliane. Una volta ricevuto l’ok, tocca agli operatori umanitari ricaricare il materiale su altri veicoli, portarlo nei depositi, smistarlo e consegnarlo alla popolazione. Per ora, questo processo a ostacoli è affidato ad alcuni organismi internazionali tra cui World Central Kitchen, ma nelle prossime settimane dovrebbe entrare in funzione il controverso piano israeliano che prevede il monitoraggio da parte di contractor americani «per evitare che Hamas se ne appropri», dice Netanyahu. Mohammed Rajab, di Gaza, è da due giorni in fila a Kerem Shalom in attesa che i camion dell’ong per cui lavora ottengano l’autorizzazione all’ingresso. «Davanti a queste montagne di cibo penso ai miei figli che a casa, a qualche chilometro da qui, mi supplicano per un pezzo di pita. Provo moltissima rabbia», dice.
Ai cancelli della prigione-Gaza, sotto il sole che già arriva a scottare fino a 35 gradi, ci sono oltre tremila veicoli in attesa. Secondo il ministero della Salute della Striscia, negli ultimi due mesi, 57 bambini sono morti per malnutrizione. Quei camion parcheggiati li avrebbero salvati tutti e, dice sempre l’Onu, basterebbero per sfamare la popolazione per almeno quattro mesi. Sami Abu Omar, imprenditore della Striscia, ci fa una lista: un litro di gasolio costa 25 dollari, un chilo di riso 18, un uovo 4, una scatola di fagioli 3, 25 kg di farina 375 dollari. «In pochi guadagnano. La maggioranza non ha più un soldo». Lui e la sua famiglia — dieci persone — vivevano nel giardino della loro villetta a Khan Yunis fatta a pezzi da un bombardamento dell’esercito israeliano. «Tre giorni fa, sono caduti dal cielo centinaia di volantini che ci avvertivano di bombe in arrivo. Quattro miei cugini sono morti. Per la nona volta in venti mesi abbiamo traslocato, ora siamo ad al-Mawasi. Bombardano anche di giorno, moriamo a decine. È peggio dell’inizio della guerra perché abbiamo anche fame». Omar ha dovuto comprare un’altra tenda: «500 dollari per vivere sulla sabbia, è orribile», dice.
Lotta contro il tempo
L’ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari ha dichiarato: «Entro le prossime 48 ore è necessario far arrivare rifornimenti per salvare oltre 14.000 bambini che soffrono di malnutrizione acuta». Da Gaza City, Angelo Rusconi, coordinatore di Medici Senza Frontiere, racconta che «sono aumentati anche i casi di donne incinte malnutrite. La popolazione è allo stremo. Si mangia una volta al giorno». Le medicine scarseggiano, il sistema sanitario è al collasso. Dice Rusconi: «Sono stato in tante aree di crisi, è la prima volta che vedo usare la fame come arma di distruzione di massa».