Per Netanyahu potrebbe risultare più utile un patto con Riad di un’occupazione a oltranza
Da quello che diventerà il grattacielo più alto di Tel Aviv il presidente americano potrebbe guardare verso il basso, verso le casette dai tetti rossi costruite dai «templari» tedeschi e adesso trasformate in centro divertimenti, tra ristoranti e negozi. O almeno il suo cognome, che già designa nel mondo altre torri di vetro e acciaio. La scritta Trump sarebbe visibile da lontano, di sicuro dal cubo bianco della Kirya, il Pentagono israeliano, dove Benjamin Netanyahu incontra lo stato maggiore e il ministro della Difesa.
Il primo ministro non ha bisogno delle lettere illuminate giorno e notte per ricordarsi a chi deve l’operazione più importante in questi 12 giorni di guerra contro l’Iran, il raid dei B-2 statunitensi per sganciare le super-bombe sul sito nucleare di Fordow. Sa che l’amico Donald gli chiederà in cambio qualche concessione, sa quanto tenga all’intesa con l’Arabia Saudita per completare gli accordi di Abramo che ha negoziato durante il primo mandato.
Anche Bibi sembra disposto ad aprire le trattative che disegnerebbero quel Nuovo Medio Oriente di cui il premier vagheggia da un paio d’anni: i massacri del 7 ottobre 2023 hanno riportato vicino a casa il suo sguardo verso orizzonti lontani, i terroristi palestinesi hanno assaltato i villaggi e le cittadine al confine con Gaza. Dove la guerra va avanti: l’offensiva di Tsahal è ripresa più intensa dallo scorso marzo, sette soldati sono stati uccisi nella notte tra martedì e mercoledì. È il numero più alto di caduti in un solo giorno da quando il cessate il fuoco è collassato: i miliziani hanno agganciato l’esplosivo al blindato per il trasporto truppe.
L’attacco è avvenuto a Khan Younis, la cittadina dov’è nato e cresciuto Yahya Sinwar, il boss di Hamas che ha pianificato gli assalti nell’autunno del 2023 ed è stato eliminato lo scorso ottobre. L’esercito è entrato e rientrato tra i palazzotti mal intonacati ormai ridotti in macerie: la nuova invasione in primavera è ripartita dal nord dei 363 chilometri quadrati. Questa volta — aveva annunciato Netanyahu — l’obiettivo è quello di mantenere il controllo «su gran parte del territorio».
Di fatto i palestinesi — più di 55 mila uccisi dall’inizio del conflitto — sono stati ammassati verso Rafah, al confine con l’Egitto. Da lì chi riesce si muove per raggiungere i centri di distribuzione per gli aiuti, che il governo a Gerusalemme ha voluto affidare a un’organizzazione americana escludendo le Nazioni Unite. Ogni giorno emergono da Gaza le immagini della folla che corre per ottenere un pasto, più volte i soldati hanno sparato sulle centinaia di persone «perché si sentivano minacciati» come dicono i portavoce.
«Non capisco perché siamo ancora intrappolati a Gaza», si chiede Moshe Gafni, leader di un piccolo partito ultraortodosso che fa parte del governo. Come se lo chiedono i famigliari dei 50 ostaggi ancora tenuti nella Striscia, solo una ventina tra loro sarebbe in vita. Da mesi protestano perché il premier riprenda i negoziati per arrivare a una tregua e al rilascio dei rapiti. Questo potrebbe chiedergli Trump: l’intesa per la normalizzazione con l’Arabia Saudita passa prima dal cessate il fuoco a Gaza e da lì al piano, almeno sulla carta, per la creazione di uno Stato palestinese.
Fonti nel governo a Gerusalemme — scrive il quotidiano Haaretz — confermano che dopo lo scontro con Teheran si aprono nuove possibilità per i negoziati con Hamas. Che non cambia le richieste: lo stop ai combattimenti non può essere temporaneo, il conflitto deve finire. Netanyahu ha promesso agli oltranzisti di mantenere l’occupazione della Striscia, dove i coloni messianici vogliono ricostruire gli insediamenti evacuati nel 2005. Le elezioni sono previste nell’autunno dell’anno prossimo e per ora — secondo i sondaggi — la coalizione perderebbe la maggioranza. Bibi potrebbe convincersi che il patto storico con Riad gli garantirebbe di ottenere i voti per restare al potere anche perdendo gli alleati ultrà.