La guerra deve finire, la politica non può continuare a restare in silenzio. Qualcuno deve muoversi
Credo sia la prima volta che accade, il silenzio del mondo davanti a una tragedia come quella di Gaza. Dovremmo preoccuparci anche di questo, della indifferenza di chi ha responsabilità politiche, sindacali, associative e non ha sentito, nel lungo tempo trascorso ormai dal 7 ottobre, il bisogno di convocare anche una sola volta centinaia di migliaia di persone per far sentire la voce dei non indifferenti perché finisca la guerra assurda che Netanyahu ha scatenato contro il popolo palestinese, non solo contro i terroristi di Hamas. Decine di migliaia di morti, migliaia di bambini assassinati, una situazione al limite della carestia.Cos’altro deve succedere perché in tutta Europa si muova qualcosa? La politica ormai parla solo in Parlamento e con i tweet, sembra aver dimenticato la presenza della coscienza delle persone e la forza della loro incontro. Non sarebbe difficile presentare una piattaforma ragionevole in cinque punti: la fine della guerra scatenata dal premier israeliano con l’obiettivo di annientare un popolo e occupare militarmente il territorio di Gaza; la condanna più severa nei confronti dell’orrore perpetrato dai terroristi di Hamas; il cessate il fuoco immediato, la liberazione degli ostaggi, la ripresa, subito, della fornitura degli aiuti umanitari alla stremata popolazione di Gaza.A incorniciare strategicamente il tutto la prospettiva della coesistenza di due popoli e due Stati che è l’unica prospettiva possibile. Il mio amico Shimon Peres mi disse una volta: «Quanto sangue dovrà scorrere ancora prima che si capisca che la sola strada possibile è la convivenza?».
Anche nell’Europa in fiamme del 1944 era assurdo pensare che quei popoli che si bombardavano reciprocamente un giorno avrebbero abolito le frontiere, usato una sola moneta, costituito un parlamento comune. Era il sogno degli europeisti, una delle tante utopie che sono divenute realtà. Siamo a tre quarti del cammino, per raggiungere gli Stati Uniti d’Europa.
Sì, ci vorranno due popoli e due stati, l’alternativa è la distruzione dell’uno o dell’altro. Ma questa prospettiva, unica e forte, ora teniamola come riferimento.
Oggi la drammatica urgenza è far cessare la guerra. I tempi peggiori della vicenda umana sono quelli in cui le vite umane smettono di essere una storia e diventano un numero, un puro numero. Così è nella contabilità quotidiana delle vittime di un conflitto assurdo, per larga parte motivato dalle volontà del premier israeliano di garantire la propria sopravvivenza politica e non, come sarebbe giusto e necessario, di evitare il ripetersi di orrori come quelli del 7 ottobre e di colpire la leadership di chi quella mattanza di poveri innocenti ha deciso e pianificato.
Liliana Segre e David Grossman, con due nitide e coraggiose prese di posizione, hanno ricordato i valori di umanità del popolo israeliano che oggi la assurda guerra di Netanyahu finisce con il tradire. Grossman ha detto, da israeliano: «Non è legittimo che dopo tanto tempo un primo ministro sia guidato ancora dalla sete di vendetta. Che cosa stiamo facendo? Come usciamo da questa situazione? Vogliamo altri cento anni di guerra? Dopo decenni di occupazione, terrore, violenza: non ci basta? Cosa vogliamo lasciare ai nostri figli: ancora odio?».
È questa la strada per evitare che, come un fantasma del passato, riaffiorino inquietanti pulsioni antisemite di cui l’attentato di Washington è testimonianza.
Oggi la tragedia palestinese parla e grida. Ma quella voce sembra non arrivare. Se si esclude la mobilitazione di gruppi di giovani nelle università, in tutto il mondo sono ben poche le grandi manifestazioni di popolo contro questo orrore.
Eppure stavolta si avverte un profondo sentimento dell’opinione pubblica, l’attesa che qualcuno prenda l’iniziativa e convochi le persone per fare quello che ognuno può fare: levare la propria voce per la fine del dolore. Stavolta l’indifferenza non è del popolo, ma di chi ha responsabilità politiche in Occidente. Le persone inorridite da quello che accade sono costrette a limitarsi al rumore inutile di un post o di un tweet perché nessuno sente l’urgenza di fare appello perché quelle coscienze si incontrino e così pesino sull’esito di questa tragedia. Ora, non tra mesi.
Verrebbe da dire alla politica di non aver paura, di avere fiducia nelle persone. Se non si capisce che la politica non è un algoritmo ma vive solo in rapporto vivido con la coscienza dei cittadini, poi non ci si può lamentare se quelle stesse persone, dimenticate, decidono di farsi da parte, di ridursi a spettatori o followers, di non votare neanche.
I governi e le istituzioni faranno di più del poco realizzato fin qui, solo se sentiranno la pressione della democratica e pacifica dimostrazione di volontà del popolo che amministrano. Funziona così, in democrazia.
Altrimenti, nel silenzio dell’opinione pubblica, resterà nella storia che gli unici a fare qualcosa sono stati i coraggiosi palestinesi che hanno manifestato contro Hamas e i coraggiosi israeliani che sono scesi in piazza contro Netanyahu e la sua guerra.