Per ragioni sia internazionali che interne (all’Italia), la «postura» del governo Meloni in politica estera potrebbe subire qualche significativo aggiustamento
Giorgia Meloni è troppo accorta per non avere compreso in anticipo che la sua partecipazione di basso profilo (collegamento online anziché presenza fisica) al vertice di Kiev avrebbe innescato tante critiche: sia la contestazione di chi, come Carlo Calenda, ha una posizione lineare e chiara in politica estera, sia quella di coloro che si oppongono comunque e a prescindere. Poco importa che la scelta sia stata dettata dalla sua rivalità con Macron o, più plausibilmente, da una preoccupazione per gli orientamenti (sulla guerra ucraina) prevalenti nella opinione pubblica italiana.
Ovviamente, Meloni pensa di rifarsi con la conferenza sulla ricostruzione dell’Ucraina che si terrà a Roma in luglio. Ma, come hanno notato tanti osservatori, un danno d’immagine, indubbiamente, c’è stato. È facile replicare che se è la sicurezza europea che è in gioco in Ucraina allora è proprio agli europei che spetta l’onere di garantire la pace. Ma ciò che pesa, anche in questo caso, è il responso dei sondaggi. Se si vuole scavare più in profondità, si può osservare che un cambiamento è forse in atto.
Per ragioni sia internazionali che interne (all’Italia), la «postura» del governo Meloni in politica estera potrebbe subire qualche significativo aggiustamento.
Per un lungo periodo, dopo la formazione del governo, la premier ha potuto (e saputo) muoversi con autorevolezza sulla scena internazionale. Al punto che la stampa occidentale, per tradizione assai poco tenera con l’Italia, le ha riconosciuto a più riprese un ruolo internazionale di rilievo. Ciò era dovuto a un concorso di circostanze che la premier ha saputo sfruttare. Contavano sia il buon rapporto instaurato con il presidente Biden sia il fatto che l’Italia aveva espresso un governo solido mentre gli altri grandi Paesi europei, dalla Francia alla Germania, erano in panne. Un fatto singolare, quasi una bizzaria della storia: la patria dell’instabilità politica (l’Italia) si era data un governo stabile, i Paesi un tempo famosi per la stabilità dei loro governi arrancavano come vecchie carrette, si erano ammalati di ingovernabilità.
Poniamo però che in futuro le cose cambino. Poniamo che Friedrich Merz, un leader volitivo, tutt’altro che incolore, nonostante la brutta partenza (eletto alla seconda votazione) riesca a consolidare il suo governo. E poniamo anche che la Francia riesca a superare le attuali difficoltà (Macron è oggi un’anatra zoppa, la maggioranza parlamentare è appesa a un filo ). Immaginiamo che, tra due anni, il prossimo presidente francese e la maggioranza parlamentare siano centristi anziché lepenisti, Forse non si ricostituirebbe quell’asse franco-tedesco che fu per tanto tempo il motore dell’Europa (è passata troppa acqua sotto i ponti) ma potrebbe comunque nascere qualcosa che gli si avvicini. Il ruolo dell’Italia ne uscirebbe ridimensionato. Nell’immediato pesano, da un lato, il «ritorno» della Germania e, dall’altro, il braccio di ferro fra Trump e l’Europa.
Il ritorno sulla scena europea di un autorevole governo tedesco toglie spazio alla Von der Leyen, alla presidente della Commissione europea con cui Meloni ha stabilito un legame stretto. Trump, a sua volta, è per Meloni un’arma a doppio taglio. Da un lato, il suo rapporto privilegiato con l’attuale presidente americano dovrebbe in teoria consentirle di svolgere un ruolo di mediazione fra America e Europa. Dall’altro lato, se l’imprevedibile Trump scegliesse un riavvicinamento all’Europa (fine della guerra dei dazi), Meloni si ritroverebbe senza ruolo e, per giunta, oberata da un legame speciale con un presidente americano assai poco popolare in Europa e in Italia. Se, per contro, il riavvicinamento non ci fosse sarebbe facile per gli avversari, italiani e non, bollarla come «traditrice» dell’Europa.
All’epoca della cosiddetta Prima repubblica l’Italia ha avuto per lungo tempo una posizione internazionale di secondo piano in Europa, non corrispondente al suo peso economico. Un effetto delle sue debolezze politico-istituzionali: governi fragili, deboli, di breve durata, minati dalle lotte di fazione. La «cura» del maggioritario, dagli anni Novanta in poi (l’epoca di Berlusconi) non riuscì a guarire l’Italia dal virus dell’instabilità, a sua volta dovuta al frazionamento delle forze parlamentari. L ’instabilità politica interna rende sempre deboli e ondeggianti le posizioni internazionali di un Paese.
Meloni ha potuto sfruttare sulla scena internazionale un insieme di fortunate circostanze ma quella fase sta forse per chiudersi. Meloni, naturalmente, fa bene se riesce a stabilire un legame solido con la Germania di Merz, stipulando accordi con il nuovo cancelliere tedesco sui tanti dossier aperti in Europa. Ma, in ultima istanza, il futuro ruolo internazionale dell’Italia sarà deciso da due fattori. Il primo, su cui l’Italia può fare qualcosa ma non molto, riguarda gli equilibri che si daranno fra i Paesi europei per effetto della loro evoluzione interna nonché gli equilibri fra Europa e America. Il secondo riguarda l’evoluzione degli orientamenti dell’opinione pubblica italiana (su Kiev come sul riarmo europeo). Orientamenti che il governo può in parte influenzare ma di cui, soprattutto, e inevitabilmente, subisce l’influenza.