sicurezza lavoro

Sullo scottante tema della sicurezza il Governo attualmente in carica ha cancellato la norma del Jobs Act con cui era stata disposta l’unificazione e riorganizzazione dei tre ispettorati competenti. Norma che andava difesa

La risposta dell’elettorato di opposizione all’appello del leader della Cgil è stata inferiore non soltanto alle attese dei suoi sostenitori, ma anche alle previsioni fondate sui sondaggi. Su questo esito ha sicuramente pesato il fatto che i quattro quesiti in materia di lavoro erano di difficile comprensione quanto al loro contenuto: astruso, per alcuni aspetti contraddittorio, nel caso del primo quesito anche ingannevole per il modo in cui è stato presentato dai promotori e da una parte della stampa. Ma sul comportamento dell’elettorato di opposizione ha pesato anche il fatto che i quattro quesiti apparivano rivolti non contro le scelte di politica del lavoro compiute dal Governo di centro-destra in carica oggi, bensì contro quelle compiute da un Governo di centro-sinistra dieci anni or sono.
Consideriamo per esempio la materia scottante della sicurezza del lavoro. Con il decreto-legge n. 19 del 2024 il Governo attualmente in carica, senza alcuna motivazione né discussione parlamentare, ha cancellato la norma del Jobs Act con cui era stata disposta l’unificazione e riorganizzazione dei tre ispettorati competenti (rispettivamente del ministero, dell’Inps e dell’Inail) per rendere più efficace e incisiva la loro attività. Un referendum mirato a contrastare questo passo indietro sul terreno della prevenzione antinfortunistica avrebbe avuto un significato chiaro, oltre che di mobilitazione popolare per la sicurezza del lavoro, anche di opposizione al Governo; avrebbe, però, significato riconoscere che almeno questa parte del Jobs Act meritava di essere difesa. Poiché invece il Jobs Act andava demonizzato, si è preferito puntare l’arma del referendum contro un piccolo codicillo della disciplina generale degli appalti, che la allinea a quella di tutti gli altri paesi della UE e che molti anche a sinistra considerano ragionevolissimo.
La stessa Cgil promotrice di questi quattro referendum, del resto, si batte oggi per una legge che stabilisca il salario minimo universale senza poter dire il vero motivo per cui si è opposta con grande determinazione, nel 2016, all’attuazione della norma che prevedeva proprio questa misura: il fatto, cioè, che essa era contenuta nella legge-delega del Jobs Act (articolo 1, comma 7, lettera g).
Ora, questo insuccesso della consultazione referendaria non significa certo che gli italiani siano nel complesso soddisfatti delle condizioni in cui versa il loro mercato del lavoro. Al contrario, è diffusissima la preoccupazione per la produttività stagnante da decenni, il conseguente ristagnare anche delle retribuzioni medie, il nanismo peculiare del nostro tessuto produttivo dovuto in gran parte alla scarsa capacità del Paese (ultimo nella UE per questo aspetto) di attrarre gli investimenti stranieri che portano aziende mediamente meglio strutturate e più capaci di valorizzare il lavoro dei loro dipendenti rispetto a quelle indigene. Ma la preoccupazione è anche per l’incapacità dell’Italia di trattenere i propri talenti migliori e di attirarne dagli altri Paesi; per un sistema della formazione professionale ancora privo di un monitoraggio capillare che misuri permanentemente l’efficacia di ciascuna struttura finanziata con il denaro pubblico (previsto dal Jobs Act – d.lgs. n. 150/2015, articoli 13-16 – ma oggetto della sorda opposizione degli apparati e mai attuato); più in generale per l’arretratezza del nostro sistema dei servizi al mercato del lavoro, che contribuisce a rendere gravemente difettoso l’incontro fra domanda e offerta di manodopera.
Nessuno dei quesiti referendari era mirato a correggere neppure una sola di queste, che sono le vere storture del nostro mercato del lavoro. Nessuno dei quesiti era capace di far balenare nell’immaginario dell’elettorato un colpo di reni del Paese per scrollarsi di dosso queste tare ereditate da decenni di politiche del lavoro assenti o patologicamente «passive», focalizzate cioè soltanto sul sostegno del reddito di chi perde il posto.
I nostri giovani più brillanti che, conseguito il diploma o la laurea, se ne vanno a lavorare all’estero non sono alla ricerca dell’articolo 18 perduto (che non troverebbero in nessun Paese); e non hanno nulla in contrario mettersi alla prova con un contratto a termine per un primo periodo di un anno o due, come avviene normalmente in tutta Europa. Ciò che li attrae, al di qua o al di là della Manica o dell’Atlantico, è un mercato del lavoro aperto, trasparente, e un tessuto produttivo in cui trovano facilmente l’azienda più capace di valorizzare al meglio il loro lavoro.
In un sistema economico ormai strutturalmente caratterizzato dall’eccesso della domanda rispetto all’offerta di manodopera, non c’è protezione più efficace per chi lavora che il poter scegliere tra diverse imprese quella che offre il trattamento migliore, disponendo dei servizi – di informazione, orientamento e formazione efficace – e dei percorsi indispensabili perché la libertà di scelta sia effettiva e la più larga possibile. Questa, oggi, è la vera frontiera dell’emancipazione del lavoro; ma non è di questo che si occupava il referendum disertato dagli italiani nei giorni scorsi.

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