
Queste persone hanno smesso di pensare al futuro come facevano prima o di programmare qualcosa di meglio
Ci sono vari modi di interpretare l’approfondimento sul ceto medio che ieri il Censis ha presentato con Cida, la Confederazione italiana dei dirigenti e delle alte professionalità. Uno di questi è che decenni di erosione del potere d’acquisto e del merito come criterio ordinante hanno spezzato il legame emotivo della borghesia con l’Italia stessa e con il suo senso di comunità. Chi si sente oggi ceto medio si identifica come tale, in primo luogo, per le proprie virtù cognitive e non per quelle finanziarie: cultura, competenze, titoli di studio, libri letti; non più tanto per reddito o capacità di risparmio. Ma queste persone hanno smesso di pensare al futuro come facevano prima o di programmare qualcosa di meglio.
Soprattutto, quasi come le élite, le donne e gli uomini del ceto medio d’Italia diventano in primo luogo esportatori di figli. Poiché conoscono gli ingranaggi del Paese – o credono di conoscerli per esperienza diretta – tendono a desiderare per chi viene dopo di loro l’emigrazione; a maggior ragione dopo aver investito nelle competenze dei giovani, forse anche più di quanto le generazioni di prima avessero investito su di loro quando ancora si risparmiava per comprare ai figli la casa e non il master all’estero.
I risultati del Censis sono incoraggianti e insieme impietosi. Il 92% di coloro che si identificano come ceto medio lo fa in base al «livello culturale», più del 79% che lo fa per la condizione economica (era possibile più di una risposta). Il 74% fra loro peraltro è convinto che, «per competenze, bagaglio culturale, titolo di studio», dovrebbe guadagnare «molto di più». Il legame tra cultura e condizione di vita dunque si incrina e così quello con il futuro: solo il 37% di queste persone pensa al proprio avvenire spesso (meno che nei ceti popolari e molto meno che fra i benestanti).
Non c’è ispirazione a costruire. Non a caso il 51% ritiene che i figli dovrebbero andare all’estero a realizzare il potenziale della loro formazione e il 35% che i ragazzi in genere dovrebbero emigrare perché l’Italia «non è un Paese per giovani».