La politica dei muscoli. I dazi e non solo: il nuovo corso dell’amministrazione Usa costringe tutti gli altri Paesi a fare i conti con la Casa Bianca

Un po’ si è riattivata l’amigdala nel cervello, un po’ Putin e Netanyahu sono andati lunghi nella loro presunzione, fatto sta che i primi cento giorni di Trump Due alla presidenza sono finiti ed è iniziata una fase diversa. Nella quale torna chiaro che la Casa Bianca è, chiunque la abiti, il governo del Paese più rilevante nel mondo: quello che fa ha un impatto che non si può accogliere unicamente con gemiti e lamenti. Non solo: per quanto spesso Donald Trump risulti illogico, sgradevole e minaccioso, non sempre ciò che fa produce disastri; produce cambiamenti, nel male e nel bene. Per confrontarsi con lui, servono occhi asciutti e nervi saldi.
L’amigdala, quella parte di cervello che regola la paura, è stata disinnescata per anni e anni sui mercati finanziari: ogni volta che c’era una crisi, le maggiori banche centrali intervenivano, immettevano grandi quantità di denaro sui mercati, abbattevano i tassi d’interesse. Tutti capivano che c’era una rete di sicurezza, non importa quale fosse la realtà della crisi, e i timori sparivano. Senza volerlo, con la bordata di dazi del Liberation Day del 2 aprile, Trump ha riattivato l’amigdala e sui mercati è tornata una paura vera: panico e vendite sui titoli prezzati in dollari. Questa reazione, a sua volta, ha spaventato il presidente americano: ha sospeso fino all’8 luglio i dazi reciproci a tutti i Paesi, Cina esclusa. È diventato chiaro quello che forse lo era fin dall’inizio: Washington punta a imporre tariffe sulle importazioni del 10% in via generale, tutto ciò che va oltre è materia di trattativa, compresi i casuali e assurdi balzelli esorbitanti imposti per pochi giorni su Paesi amici e isole di pinguini.
L’accordo appena raggiunto tra Stati Uniti e Regno Unito certifica l’approccio di Washington: dazi fissati al 10% e impegno di Londra a limitare gli scambi con Pechino. Chi ha intenzione di aprire un tavolo negoziale con Washington, Unione europea in testa, ora sa che un accordo si può fare: le trattative non saranno facili, Trump farà il gradasso ma in casa ha le banche, le imprese, i supermercati, gli agricoltori che premono per evitare il più possibile rotture drastiche nei commerci. E ora è anche chiaro che, nel corso dei negoziati, la Casa Bianca chiederà di alzare muri negli scambi con la Cina, il vero e forse solo avversario riconosciuto da Trump.
L’accordo siglato con i cinesi a Ginevra nella notte di domenica apre trattative commerciali nei prossimi 90 giorni e, per il periodo, sospende gli stratosferici dazi reciproci: indica che Washington non vuole e non può disaccoppiare del tutto l’economia americana da quella di Pechino. Di sicuro, però, Trump intende frenare l’emergere del gigante asiatico, forse arrivare a stabilire zone d’influenza, una occidentale e una orientale, porose ma separate. In ogni caso, si va verso una biforcazione delle partnership commerciali e a una ridefinizione delle catene di fornitura delle imprese.
Il presidente americano non ha mai nascosto di puntare a «fare di nuovo grande l’America», lo urla ogni giorno. Ha però un’amministrazione divisa: da una parte chi vorrebbe il ritiro degli Stati Uniti dagli affari del mondo per concentrarsi sulla ricostruzione delle comunità locali prostrate da anni di povertà e droghe; dall’altra, gli imprenditori anarco-tecnologici che pensano a soluzioni postdemocratiche e hi-tech ma non vogliono una chiusura semi-autarchica. Per ora, Trump non ha deciso chi sarà il vincitore tra le due anime, la prima rappresentata da Steve Bannon e la seconda da Elon Musk. Ma le evoluzioni internazionali lo stanno costringendo a riaffermare in qualche modo la tradizionale preminenza degli Stati Uniti negli affari del mondo.
Peccando di hybris, Vladimir Putin ha probabilmente perso l’occasione per ottenere molto da Trump riguardo all’invasione dell’Ucraina. La Casa Bianca ha imposto la necessità della fine delle operazioni miliari ma le importava poco che una eventuale pace o mezza pace fosse ingiusta. Il leader russo voleva però di più e ora rivede gli ucraini, la Ue e gli Usa dalla stessa parte, a minacciarlo di nuove sanzioni: voleva dividere l’Europa dagli Stati Uniti, si è ritrovato sulla Piazza Rossa con l’amico Xi Jinping e, per il resto, in compagnia di Bielorussia, Iran, Corea del Nord, Venezuela, Cuba e pochi altri clienti. Mancava Al Capone.
Con Netanyahu la storia è diversa ma anche il primo ministro israeliano sembra avere sopravvalutato le proprie chance, ha creduto di fare con Trump quello che faceva con Joe Biden, metterlo davanti al fatto compiuto. L’idea che Israele occupi a lungo la Striscia di Gaza non è accettata a Washington, che per il Medio Oriente ha altre idee: cercare un accordo con l’Iran (se possibile), avvicinare il riconoscimento di Israele da parte dell’Arabia Saudita (dove Trump è in visita questa settimana) e aprire una strada, impervia, per affrontare la questione palestinese. Tutto questo — Ucraina e Medio Oriente — è il segno che gli Stati Uniti non si sono ritirati dalle vicende del pianeta, rompono anzi equilibri che sembravano intrattabili. Intervento più recente, la mediazione condotta tra India e Pakistan, nella regione che Pechino vorrebbe di sua influenza.
Trump non è certo un liberale. Ha una visione del mondo per la quale la coesistenza non è mai vantaggiosa per tutti ma solo per chi ha i muscoli. Non bello e pericoloso. Cento giorni dopo, però, si scopre che deve fare i conti con la realtà e che nemmeno lui potrà ritirare gli Stati Uniti dal mondo. Chi ha dato per persa l’America deve forse ripensarci.

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A.N.D.E.
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