Bitcoin e stablecoins fanno ormai parte della nostra quotidianità. Ma con quali garanzie? Bankitalia e Consob parlano di pericolo sistemico. La Ue prova a disciplinare il settore
In altri momenti storici, la minacciata perdita di indipendenza della più grande banca centrale del mondo avrebbe avuto pesanti conseguenze sui mercati. Nulla è accaduto, almeno per ora. Bene così? Non proprio. L’ormai uscente presidente della Federal Reserve, Jerome Powell, nel rispondere direttamente agli attacchi di Donald Trump, ha avanzato una serie di preoccupazioni sull’elevato livello, soprattutto in prospettiva, del debito pubblico americano. E sono le stesse preoccupazioni, seppur espresse con poteri e modi molto diversi, che nutre la Casa Bianca. Con la sola e non piccola differenza che l’amministrazione Trump pensa di aver trovato nelle criptovalute e, in particolare, nelle stablecoins una soluzione tecnologicamente avanzata per sostenere il debito federale ormai prossimo ai 36 mila miliardi di dollari.
Sono due i provvedimenti normativi in materia in discussione negli Usa. Il Genius Act (Guiding and establishing national innovation for Us stablecoins), approvato finora al Senato americano. E lo Stable Act (Stablecoin transparency and accountability for a better ledger economy) passato finora alla Camera. Quest’ultimo, come si evince dalla formulazione, è più restrittivo.
«La faglia tellurica»
In sintesi: ogni emissione di stablecoins, che avviene soprattutto da parte di privati, deve avere una riserva in dollari o in titoli di Stato. I sottostanti delle varie Thether sono però a volte depositi in banche di paradisi fiscali o titoli a sei e a dodici mesi che andrebbero, all’occorrenza, venduti o meglio svenduti. Trump, una volta contrario alle criptovalute, si è così convertito al loro fascino al punto di averne emesse diverse, insieme anche ai propri familiari, in particolare con World liberty finance. Su piattaforme che sfruttano la tecnologia blockchain. Sistemi di finanza decentrata (DeFi) quasi sempre al di fuori dei controlli di banche centrali e di altre autorità. In qualche documento, il presidente Usa è definito Chief crypto advocate. C’era una volta il conflitto d’interesse…
Queste piattaforme, che offrono criptovalute o stablecoins, fanno ormai parte della nostra più modesta quotidianità. Sia per le tante campagne pubblicitarie, sia per le massicce promozioni, in particolare sportive. Ma con quali garanzie contro i rischi (occulti) di controparti dalla solidità patrimoniale incerta, spesso nascosti in paradisi fiscali? Ed ecco che, in un attimo, dal discorso sulla sostenibilità del debito americano si scende vertiginosamente fino ai portafogli degli investitori. Anche italiani.
Non solo professionali, che sarebbe poi il loro mestiere, ma anche dei semplici risparmiatori. Qui c’è tutto il pericolo sistemico di cui hanno parlato sia il governatore della Banca d’Italia sia il presidente della Consob. Fabio Panetta, nelle sue Considerazioni finali, ha messo in guardia dal diffondersi di «strumenti volatili, privi di sottostante», con il rischio di fallimento delle piattaforme, regolate e no, che li emettono. Paolo Savona, oltre ad avere definito il mondo delle cripto come il «campo dei miracoli» del Pinocchio di Collodi, ha parlato addirittura dell’emergere di «una faglia tellurica con sbocchi di proporzioni imperscrutabili».
Lo stato dell’arte
L’Unione europea ha definito, già nel 2023, un quadro normativo più stringente di quello Oltreatlantico, ma certamente insufficiente e lacunoso. Il Micar (Markets in crypto assets regulation) dovrebbe regolare le criptoattività e l’emissione di stablecoins e di tokens, cioè unità digitali, ma non è ancora del tutto operativo. È prevista l’autorizzazione delle piattaforme e la sottoscrizione di un prospetto, come avviene per le aziende che si quotano. E, nel caso delle stablecoins, occorre mantenere, almeno ufficialmente, riserve liquide a garanzia delle emissioni. Gli operatori sono soggetti ai controlli dell’Eba, l’autorità bancaria europea, e dell’Esma che vigila sui mercati. Il principale interrogativo politico riguarda il futuro delle regole europee in materia che tendono fatalmente a contrapporsi con quelle americane destinate a influenzare maggiormente il mondo delle cripto, ovviamente più vasto e vivace tecnologicamente. Ci si domanda se, nell’ampio e tormentato raggio di trattative con l’amministrazione Usa, queste norme non finiscano per essere un altro vaso di coccio, sacrificabile, come la Global minimum tax sui giganti del Web. Il mercato delle cripto è valutato in circa 3 trilioni di dollari, di cui 2 rappresentati dal solo Bitcoin, che è il settimo asset mondiale per importanza (e vale attualmente quasi 110 mila dollari).
C’è poi un dilemma di fondo quasi diabolico, faustiano. Fino a che punto regolare la materia senza frenare l’innovazione e perdersi, costringendole ad emigrare, tutte le promettenti start up? Ovviamente, da questo punto di vista, l’America è l’Eldorado e l’Europa appare un gigante invecchiato, timoroso e occhiuto. La libertà di innovare e intraprendere offre inevitabilmente vaste praterie anche alla criminalità, al riciclaggio dei capitali, all’evasione fiscale. Gli stati, lungo questa china, appaiono destinati a perdere progressivamente il controllo della moneta (le valute digitali, garantite dalle banche centrali sono un’altra cosa) e delle più diffuse forme di pagamento alternative. Poteri privati acquisiscono vantaggi incolmabili rispetto alle istituzioni democratiche che potranno persino ricattare detenendo parti del loro debito sovrano.
Il pericolo per il risparmio privato
«Il regolamento Micar – spiega Federico Cornelli, commissario Consob – è un primo passo ma non copre le emissioni di Bitcoin. L’attività di mining, cioè il modo attraverso il quale alcune cripto nascono per poi essere vendute nella Rete, sfugge totalmente. Sarebbe stato peraltro necessario a monte un accordo internazionale che fatico, visti i tempi, a ritenere attualmente possibile. Micar è nata per regolamentare le piattaforme di scambio delle cripto e delle emissioni ma, causa alcuni rinvii, in Europa diventerà di fatto in vigore solo nel 2026. A questo punto ci si interroga se riservare il trading in cripto solo agli investitori professionali oppure aprire ai privati dopo le opportune verifiche di adeguatezza e di antiriciclaggio. Già oggi i privati possono accedere ai vari prodotti in execution only, ovvero con la piattaforma di scambio che esegue direttamente e solamente l’ordine del cliente. In questo panorama già complesso si diffondono oggi anche certificati su cripto con sottostanti future su cripto. In genere sono future americani. Un’innovazione che però non deve farci dimenticare i problemi di opacità nei processi di formazione dei prezzi delle cripto: l’assenza, in alcune di esse, di un debitore finale e la totale mancanza di fondi di garanzia come avviene invece per i depositi bancari. Va ovviamente distinto l’uso e lo sviluppo della tecnologia, da sostenere, dall’applicazione su prodotti che presentano profili di rischio elevato per il risparmio privato. La diffusione delle cripto nella forma di stablecoins attualmente utilizzate anche per trasferimenti cross border in Paesi a valute deboli o volatili, pone inoltre un tema di stabilità macro nel caso di asset fire sale, cioè vendite rapide del sottostante in momenti di difficoltà, con rischi di perdite nei prezzi di conversione delle stablecoins e pericoli di contagio all’interno del perimetro stesso delle cripto. Rischi non sempre percepiti come tali dai singoli e più piccoli.