Polveriera Medio Oriente: sull’anomalia persiana degli ultimi 46 anni abbondano equivoci, inganni, calcoli spesso finiti male
L’Iran non è Gaza, in molti sensi. Estensione, forza militare, storia del regime ne fanno un avversario più temibile di Hamas, anche se meno formidabile di quanto voglia far credere. D’altra parte l’offensiva di Netanyahu contro la Repubblica islamica è molto più popolare fra gli israeliani di quanto lo siano i combattimenti nella Striscia. Anche all’estero il clima è diverso. Nazioni arabe che denunciano con indignazione le sofferenze inflitte alla popolazione palestinese, sono invece ambigue sull’Iran: la condanna dell’attacco è blanda, nasconde un segreto desiderio che vinca Tel Aviv.
Il mondo arabo sunnita subisce dal 1979 aggressioni multiple, dalla delegittimazione ideologica, fino alle guerre di milizie armate da Teheran. In quell’area l’uso che gli ayatollah fanno dello scisma sciita viene considerato una maschera dell’antico imperialismo persiano; idem per la strumentalizzazione cinica dei palestinesi, usati come una pedina nel risiko mediorientale. Anche altrove nel mondo si affaccia una possibilità: forse Israele è sul punto di chiudere la minaccia persiana degli ultimi 46 anni? Il cancelliere Merz osa dire ciò che altri pensano: «Israele fa il lavoro sporco per noi».
Sull’anomalia persiana di questi 46 anni abbondano equivoci, inganni, calcoli finiti male. Mezzo secolo fa l’Iran era un laboratorio di modernizzazione laica, pur con i gravi limiti del dispotismo dello Scià, ma con indubbi benefici per esempio sui diritti delle donne. Il risentimento antioccidentale che risaliva agli intrighi della Cia negli anni ‘50, aiutò la propaganda di un oscurantista fanatico, Khomeini. Esaltato da guru del marxismo post-moderno come Michel Foucault, la guida suprema gettò la maschera presto: fra le prime vittime delle sue esecuzioni di massa ci furono proprio i comunisti; poi cominciò l’oppressione dell’intero genere femminile.
Abbracciare la questione palestinese, attirando nell’orbita di Teheran i capi dell’Olp di estrazione atea e marxista, fu uno dei colpi di Khomeini: del popolo palestinese non gli importava nulla, l’obiettivo era screditare le nazioni arabe accusandole di tradimento. La Palestina sarebbe diventata, come il Libano, poi in parte la Siria o l’Iraq, uno dei campi di combattimento dove l’Iran usava interi popoli come «scudi umani» nelle sue guerre per procura.
Le pedine agli ordini di Teheran erano funzionali al disegno messianico che la teocrazia ha scolpito nella propria costituzione: distruggere Israele e sterminare gli ebrei; cacciare il Grande Satana americano dal Medio Oriente; assumere il controllo dei luoghi sacri della fede, la Mecca e Medina, quindi annettendosi l’Arabia dopo averne deposto la casa reale. Altri apprendisti stregoni hanno visto delle opportunità in questo Iran determinato a espellere gli Usa e distruggere i loro alleati.
La Russia è diventata un’amica degli ayatollah, sorvolando sul modo in cui a casa propria Putin liquidò il pericolo jihadista (la «soluzione finale» applicata agli islamisti in Cecenia). La Cina, principale importatrice del petrolio iraniano, ha offerto la sua leadership a questo Asse anti-occidentale: con qualche contraddizione interna, visto che Xi Jinping contro le infiltrazioni del fondamentalismo islamico «rieduca» in campi di prigionia circa un milione di musulmani uiguri.
Questi giochi forse sarebbero durati, se il regime degli ayatollah non avesse sbagliato valutazioni strategiche, con il massacro di Hamas il 7 ottobre 2023. Quella mattanza ha convinto non solo Netanyahu ma un’intera nazione che era iniziata una lotta per la sopravvivenza. Malgrado il crescente isolamento internazionale di cui soffre Tel Aviv, in un anno e otto mesi ha assestato colpi tremendi ai tentacoli della piovra iraniana: ha decapitato Hamas, Hezbollah, il regime di Assad in Siria. Di quello che la propaganda iraniana chiamava l’Asse della Resistenza, al momento restano gli Houthi dello Yemen, non si sa per quanto. Riguardo all’altro Asse, quello fra Mosca Pechino e Teheran, colpisce lo spettacolo d’impotenza di russi e cinesi: protestano ma non sono in grado di interferire.
Un’altra assenza è quella di una reazione scomposta dei mercati. I rialzi nel prezzo del petrolio sono stati contenuti. Investitori e operatori economici finora non credono a scenari estremi. La chiusura dello Stretto di Hormuz, da cui transita tanto petrolio? Sarebbe per l’Iran un gesto di disperazione, ma danneggerebbe anche le proprie esportazioni, oltre a tagliarsi gli ultimi ponti con gli arabi del Golfo. Molti sperano che la via d’uscita meno traumatica sia un cambio di regime gestito da un’ala interna di quello attuale: uno scenario analogo all’ascesa del principe Mohammed bin Salman in Arabia, un ricambio generazionale che porti al potere dei giovani tecnocrati, islamici ma non fanatici, nazionalisti ma non accecati dall’odio contro Israele e l’Occidente.
Per l’America di Trump questo Israele è l’alleato ideale: mette ordine nella propria regione, elimina o azzoppa i nemici degli Stati Uniti, ma con una dipendenza limitata dagli aiuti di Washington. L’ambiente Maga (Make America Great Again) spera che Trump non si faccia attirare dalla voglia di una vittoria «facile», aggregandosi all’offensiva israeliana per sferrare il colpo finale. L’allineamento America-Israele è una tradizione bipartisan, inaugurata dal democratico Lyndon Johnson nella Guerra dei Sei Giorni (1967) e mai più abbandonata. Però Trump mostrò il massimo disprezzo per le guerre mediorientali dei Bush (Iraq, Afghanistan) e di Obama (Libia). Se dovesse lanciarsi a sua volta in una missione militare di alto profilo, oltre a deludere l’ala isolazionista del suo mondo, si troverebbe a «possedere» l’esito della questione iraniana. Nei manuali dei suoi deprecati predecessori, Bush e Obama, dopo il regime change veniva il nation building, la costruzione delle nuove istituzioni, del sistema politico, della sua legittimità e funzionalità. In Medio Oriente e negli ultimi decenni, è difficile trovare precedenti rassicuranti.