L’idea è che l’intero modello europeo stia facendo acqua da tutte le parti, e molti dei problemi che l’Europa conosce oggi, si possono far risalire a una leadership in particolare: quella della Germania sotto Angela Merkel
Da qualche tempo c’è chi gongola in America per lo spettacolo desolante che offre la Francia. Diversi titoli del Wall Street Journal nei giorni scorsi condensavano il sottile «godimento» degli osservatori statunitensi, abituati a sentirsi rampognare dalle cattedre europee. «La Francia è la nuova Italia» era un titolo recente, dove il paragone era con lo stereotipo sull’Italia dai governi deboli e instabili. «Francia e Regno Unito avranno bisogno di un salvataggio del Fondo monetario internazionale?» era un altro titolo, interrogativo allarmante. Dietro c’è l’idea che l’intero modello europeo, lungi dall’essere un fulgido esempio per il resto del mondo, sta facendo acqua da tutte le parti.
Le strumentalizzazioni americane possono irritare, ma non bisogna dimenticare che Washington resta il primo azionista del FMI, e che l’idea di chiamare in causa questa istituzione per un maxi-salvataggio della Francia fu lanciata nientemeno che da un ministro della République transalpina. Più in generale, i commenti americani colgono almeno un elemento di verità: le traversie della Quinta Repubblica sotto Macron non possono essere circoscritte entro i confini di quel paese; il ruolo della Francia è ben noto nella «coppia trainante» dell’integrazione europea a fianco della Germania; in una fase così densa di sfide per l’Unione la debolezza della Francia diventa un problema per tutti.<
Gli appassionati di storia forse sono tentati di fare paragoni con la Quarta Repubblica, regime parlamentare nato subito dopo la seconda guerra mondiale, e sinonimo di ingovernabilità, governi effimeri, coalizioni parlamentari rissose, scandali a ripetizione. Fu anche il periodo in cui – guarda caso – la Francia fece naufragare il primo progetto di difesa comune europea: anno 1954. I veri conoscitori della storia locale correggono il tiro sugli antecedenti storici, indicano che per trovare una fragilità politico-istituzionale come quella odierna bisogna risalire ancora più indietro, alla Terza Repubblica di sinistra memoria: fu quella che perse in poco tempo la guerra contro la Germania di Hitler, spianando la strada al governo collaborazionista e filo-nazista del maresciallo Pétain.
Nel contesto europeo odierno c’è un altro tipo di ricostruzione storica che è importante. Molti dei problemi che l’Europa conosce oggi si possono far risalire alla leadership della Germania sotto Angela Merkel. Una statista che è stata abilissima nel curare la propria immagine e la propria eredità storica, ma il cui bilancio si fa sempre più problematico col passare degli anni. Ricordo tre tappe cruciali. L’imposizione di un’austerity rigida all’Eurozona come risposta alla crisi finanziaria che ebbe inizio nel 2009 («coda» del crac dei mutui subprime a Wall Street) e si trascinò penosamente negli anni successivi con danni particolarmente acuti in tutta l’Europa del Sud, senza risparmiare la Francia. Poi l’adozione delle frontiere spalancate dal 2015 di fronte ai flussi migratori, un gesto che la Merkel impose all’Europa come una prova di grande generosità, ma le cui modalità incaute finirono per acutizzare tensioni etniche e crisi di rigetto. Infine l’abbraccio di una politica Green che per tutta l’Europa avrebbe comportato costi elevati. Il movimento dei Gilet Jaunes oggi è dimenticato, ma fu una delle tante varianti di rivolta populista di fronte a quelle politiche.
L’elenco è lungo, dai movimenti no-global in Spagna e Grecia, a Beppe Grillo, fino a Brexit: ogni paese ha conosciuto le sue formule nazionali di populismi anti-sistema, anti-élite, dall’estrema destra all’estrema sinistra inclusi degli «estremismi di centro». A volte il casus belli era l’immigrazione, altre volte il prezzo della benzina, il salvataggio dei banchieri a spese dei contribuenti, l’austerity di bilancio applicata da governi tecnocratici, o semplicemente un diffuso disagio sociale. Voler trovare una spiegazione univoca sarebbe una forzatura. Ma per il peso dominante della Germania – demografia, economia, finanza – è innegabile che le scelte della Merkel abbiano condizionato tutti i vicini. In questo senso, anche per la crisi francese c’è una pista che conduce a Berlino.
Non è la prima volta che si assiste a una convulsione politica parigina che ha un’ombra tedesca sullo sfondo. Senza rievocare i tragici precedenti bellici, un caso importante è il 1983. Aveva da poco vinto le elezioni presidenziali (1981) il socialista François Mitterrand, una svolta storica che prometteva riforme molto radicali: nazionalizzazioni di quasi tutte le grandi imprese strategiche, banche incluse, e tanto Welfare in più (in un paese che era già generoso di assistenza e di dirigismo statalista sotto i gollisti). La sterzata socialista di Mitterrand fu poderosa, le promesse vennero attuate in breve tempo. Poi arrivarono i castighi dei mercati: fughe di capitali, sfiducia, panico, recessione. L’euro non esisteva ancora. Messo di fronte alla prospettiva di una massiccia svalutazione del cambio con il marco tedesco, Mitterrand dovette chiedere al suo ministro delle Finanze Jacques Delors (futuro presidente della Commissione UE) di rinnegare tutto e di piegarsi alla «disciplina tedesca», con una rapida contro-svolta in direzione dell’austerity. Oggi però, a differenza di 42 anni fa, è proprio su un tentativo assai timido di applicare una mini-austerity che si consuma l’agonia di questa République.