L’incertezza rimane grazie all’aumento dei prezzi dei noleggi, soprattutto marittimi, e delle materie prime. E poi c’è il calo della fiducia tra Stati e privati

Torna di grande attualità, in questo tormentato periodo di incertezze geopolitiche ed economiche, l’opera di Carlo Cipolla (1922-2000). Soprattutto per un suo famoso libro dal titolo Le leggi fondamentali della stupidità umana (Il Mulino). Cipolla è giustamente celebrato tra i grandi economisti di tutti i tempi ne Il pensiero economico nell’Italia repubblicana, opera straordinaria a cura di Pierluigi Ciocca e Giangiacomo Nardozzi (Treccani). Gli autori lo definiscono «un grande viaggiatore nella Storia». Cipolla era convinto che lo studio dell’economia servisse anche per capire «come gli esseri umani, spesso in modo irrazionale, gestiscano risorse scarse per soddisfare bisogni infiniti, generando risultati tanto brillanti quanto disastrosi». Ora qualcosa di analogo accade anche in questi frangenti nei quali, parlando soprattutto di dazi, di neomercantilismo, a volte non riusciamo proprio a capire quanto l’ideologia e l’arroganza siano in grado di offuscare e di alterare l’osservazione della realtà e la gestione degli strumenti politici. Che cosa scriverebbe, di tutto ciò che sta accadendo oggi sotto i nostri occhi, Carlo Cipolla, il grande e perfidamente ironico «viaggiatore nella Storia»? La curiosità è irresistibile.

Dobbiamo però ammettere chel’economia internazionale, almeno quella che vediamo attraverso i suoi principali indici statistici, mostra un margine di resilienza, una capacità di assorbire tanti choc inaspettati, addirittura sorprendente. Se il 2 aprile, l’infausta data del Liberation Day di Donald Trump, ci avessero detto che a metà maggio i mercati finanziari si sarebbero del tutto ripresi dall’annuncio di una sgangherata guerra commerciale, non ci avremmo creduto. La sospensione anziché di novanta giorni sembra, nella percezione collettiva, sine die. E forse qui c’è un eccesso di immotivato ottimismo.
In ogni caso, vi è una sorta di intelligenza collettiva, una saggezza di fondo negli operatori economici, ma anche e soprattutto nei risparmiatori che non si sono fatti prendere dal panico, del tutto strabiliante. Non è una assoluta novità. Gli choc della pandemia e della guerra in Ucraina sono stati assorbiti meglio del previsto. Nessuno poi avrebbe immaginato che il contenzioso tra Stati Uniti e Cina, soprattutto per come il confronto è stato aperto con durezza apocalittica dal presidente americano, avrebbe portato a un’intesa, per quanto temporanea, così veloce come quella raggiunta nei giorni scorsi a Ginevra. Un po’ è come se l’economia avesse preso le misure a Trump meglio della politica, scontando subito la schiuma del suo carattere di business man, facendogli subito la tara.

Ma è anche la dimostrazione di quanto siano efficaci i «contrappesi occulti» del potere economico. Le ragioni produttive e di bilancio delle grandi multinazionali, che pure sono prone al nuovo potere, prevalgono su proclami tanto roboanti quanto, a volte e forse per fortuna, vuoti. E poi ci sono i prezzi al consumo che hanno una loro spietata dinamica. Ciò non toglie però del tutto efficacia politica alla svolta della Casa Bianca.
L’uso degli strumenti per raggiungere gli obiettivi è contraddittorio, ma la direzione è confermata. Si punta molto in alto, poi ci si accontenta. Ma quello che ci sembra oggi poco rispetto alla grave solennità del Liberation Day è tutt’altro che trascurabile. Le novità sono minori e più digeribili, ma non irrilevanti. «La retromarcia sui dazi — è il commento di Matteo Ramenghi, Chief investment officer di Ubs Italia — ha riportato la calma sui mercati; la volatilità è rientrata nella media storica; la Borsa americana è ritornata, rispetto a inizio anno, in positivo, l’Europa guadagna il 10 per cento circa, la Cina il 16. Il rendimento dei Treasury è a metà strada tra il massimo e il minimo degli ultimi mesi. Ma il dollaro si è svalutato sull’euro di quasi il dieci per cento ». E non è poco.

La tariffa effettiva applicata sulle importazioni americane è ora stimata nel 15 per cento, la più elevata degli ultimi 40 anni. Largamente inferiore al temuto 25 per cento, ma superiore di sei volte al 2,5 per cento che veniva applicato pochi mesi fa. Aliquota tariffaria che aumenterebbe di altri quattro punti percentuali se si applicasse il minacciato dazio del 25 per cento a un complesso di altre importazioni (farmaci, minerali critici, rame, semiconduttori) per complessivi 500 miliardi .
«Stimiamo che si sia comunque bruciato — prosegue Ramenghi — un punto di Prodotto interno lordo americano. E ciò complica il percorso di aggiustamento fiscale che l’amministrazione americana è costretta a compiere, a fronte di promesse di tagli alle tasse e altri interventi dal costo stimato in 4 o 5 mila miliardi in dieci anni. Il disavanzo federale medio, dal 2008 in poi, è stato del 6,3 per cento».
Ramenghi cita uno studio del Petersen Institute, secondo il quale un livello troppo elevato dei dazi può portare complessivamente a minori entrate fiscali. Non possiamo arrivare a dire, guardando l’andamento dei mercati finanziari, soprattutto negli ultimi giorni, che molti pericoli sono scampati e che non dobbiamo temere nulla. No. «Rimango convinto — è l’opinione di Andrea Montanino, Chief economist del Gruppo Cassa Depositi e Prestiti — che una parte minima dei dazi possa essere abbastanza facilmente assorbita, tra l’altro un riequilibro della bilancia commerciale è necessario ed è preferibile che avvenga senza strappi e crisi. La resilienza dell’economia è sorprendente. Due sono però gli choc di quest’ultimo periodo ai quali sarà difficile adattarsi. Il primo è relativo al costo dei noli, dei trasporti marittimi. Dal 2000 al 2018 per un container da Shangai a Genova hanno oscillato tra i 1000 e i 1500 dollari. Nel giugno del 2024 sono arrivati addirittura a 21 mila e 600. Oggi sono sopra i 5 mila. Oscillazioni fortissime con un impatto durevole su filiere e costi. Il secondo grande scossone è quello delle materie prime. Non solo i prezzi sono esplosi ma ci troviamo di fronte a fenomeni di rarefazione o addirittura di totale scomparsa dell’offerta. Un po’ come avveniva per il petrolio nelle due crisi degli anni Settanta. Ed è opportuno non sminuire la portata di questi due fenomeni».

Ai quali noi ne aggiungiamo un terzo. Difficilmente misurabile. Ed è la perdita di fiducia nelle relazioni non solo tra Stati ma anche tra privati. E il fatto che qualche volta, nella loro volubilità, le opinioni e le scelte politiche stupiscano in positivo, non attenua la strana sensazione di essere entrati nell’era in cui la prudenza tracima, a volte, nel sospetto della controparte.

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