Israele rischia di infilarsi in una strada senza via d’uscita. ma i terroristi di Hamas vanno fermati e trovano complicità

Un dato abbastanza sicuro va profilandosi: l’operazione militare organizzata da un anno e mezzo da Israele sta andando incontro a un fallimento. Israele non è sconfitto ma sta egualmente perdendo. Rintanata tra le macerie di Gaza, Hamas benché colpita duramente esiste e resista ancora, e distruggerla è pressoché impossibile senza una occupazione militare massiccia e permanente della Striscia. Che però appare difficilissima a realizzarsi.
Vuoi perché la presenza di un milione e mezzo di persone ostili in un territorio devastato e privo di qualsiasi risorsa significherebbe per Gerusalemme, in realtà, doversi far carico dell’amministrare in prima persona qualcosa che di fatto sarebbe un gigantesco campo di concentramento (per giunta con probabili episodi di terrorismo al suo interno). E poi perché contro Israele la mobilitazione internazionale — compresa quella decisiva degli Stati Uniti — è ormai tale da costituire un ostacolo virtualmente insuperabile per un progetto del genere.
Ma è troppo facile considerare chiuso qui il discorso aggiungendovi, come d’obbligo, l’immancabile condanna di Israele. Troppo facile politicamente, intellettualmente, e — per chi a questo genere di cose fa qualche attenzione — anche abbastanza vile moralmente. Chiudere così il discorso, infatti, lascia inevasa una domanda decisiva alla quale, per la verità, fin dall’inizio di questa terribile storia gli innumerevoli critici di Israele avrebbero dovuto sentirsi tenuti a dare una risposta che invece ancora non si è sentita: «Ma quale reazione avrebbe dunque dovuto avere Israele dopo il 7 ottobre per non cadere sotto la vostra censura?»
In realtà, dopo la macelleria di quel giorno nessuno in Occidente osò pensare che Israele non dovesse reagire in qualche modo. Ma a nessuno venne in mente però, di organizzare, ricorrendo a tutti i canali disponibili (diplomatici e non), una pressione continua, decisa, crescente verso il mondo islamico perché Hamas fosse costretto a restituire immediatamente l’enorme numero di ostaggi nelle sue mani: che era il vero punto anche emotivamente in quel momento decisivo. Tutti deprecarono, ma nessuno fece niente.
Che io ricordi nessuno dei critici di oggi ebbe allora il coraggio, l’intelligenza o semplicemente la fantasia, non dico di fare, ma di proporre alcunché. L’Onu, ad esempio, che avrebbe potuto minacciare di ritirare la sua «alta protezione» su Gaza, di spezzare il suo legame ombelicale del più vario tipo con la società locale, di interrompere l’invio di cibo, medicine, finanziamenti e quant’altro serviva da anni a tenere in vita la Striscia, si guardò bene dal muovere un dito (e anzi con ogni probabilità accettò che una parte degli ostaggi fosse rinchiusa in locali sotto la sua giurisdizione). E così tutti gli altri: «Sì, va bene — sembrò che dicessero — centinaia di inermi, di donne e di bambini rapiti dopo la mattanza e tenuti a marcire al gelo e nell’oscurità, sì, certo, ma suvvia che sarà mai dopo tutto…». Israele insomma fu lasciato solo. Dove stavano in quelle ore, in quei giorni — è lecito chiederlo? — i corifei del diritto internazionale umanitario, della riprovazione decisa dei crimini di guerra contro i civili, con tutta la sequela di appelli che invece sentiamo levarsi da mesi contro lo Stato ebraico? Che ne era in quei giorni, in quelle ore, della loro voce oggi tonante? La verità è che Israele fu lasciato assolutamente solo a vedersela con i briganti del terrorismo islamista.E chi non capisce (o non vuol capire) il peso che in tutto lo svolgimento successivo dei fatti ha avuto questa drammatica solitudine — sinistramente echeggiante la secolare solitudine ebraica di fronte alla ferocia dei suoi nemici — non può capire nulla di quanto è accaduto. Lasciato comunque solo, Israele, simile a un Golia impazzito di rabbia e di desiderio di vendetta, perse la testa.
Cedette alla tentazione di farla pagare con la vita agli assassini dei suoi figli, e si gettò in una difficilissima operazione terrestre contro gli esecutori invece di rivolgersi contro il mandante, cioè contro l’Iran. So bene quanto sia a rischio di ridicolo la parte dello stratega da tavolino: ma se si tratta di operazioni militari come si fa a parlarne senza correre questo rischio? Con la sua schiacciante superiorità aerea Israele avrebbe potuto facilmente intimare a Teheran che fin quando non avesse obbligato Hamas a restituire gli ostaggi, la sua aviazione ogni dodici ore avrebbe raso al suolo un aeroporto, una base militare, una centrale nucleare, un’autostrada, una centrale elettrica dell’Iran. E così via di seguito: senza colpire un civile ma avrebbe riportato il Paese indietro di un paio di secoli.
Mi pare difficile credere che il governo della Repubblica islamica avrebbe potuto resistere a un simile ultimatum senza mettere a rischio la propria sopravvivenza. Così come mi sembra difficile che gli Usa o gli altri Paesi islamici, dall’Egitto all’Arabia Saudita, avrebbero avuto realmente qualcosa da obiettare se non a parole, in qualche dichiarazione destinata a non lasciare traccia.
Come si sa le cose sono andate invece ben diversamente. Israele si è infilato a testa bassa nel tunnel senza uscita di qualcosa che sempre più assomiglia a uno sterminio. Uno sterminio che tuttavia ha questa bizzarra singolarità: che potrebbe essere fermato in ogni momento se solamente chi dice di rappresentare gli sterminati, cioè Hamas, decidesse di restituire i pochi ostaggi ormai sopravvissuti. Ciò che però nel loro cinismo i terroristi, naturalmente, si guardano bene dal fare. Potendo così oggi assaporare una doppia vittoria: dopo aver umiliato il 7 lo Stato ebraico, tenerlo inchiodato al ruolo di oggetto dell’esecrazione universale avendo aggiunto agli ebrei catturati un anno e mezzo fa l’intera popolazione palestinese di Gaza come propri ostaggi.

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