L’ombra delle scelte oscillanti di Trump sulla conferenza a Roma per la ricostruzione dell’Ucraina
I più sorpresi sembrano i russi che, forse non a torto, contano su di lui. «Il presidente americano è di nuovo in bilico nella sua oscillazione politica», ha detto con disappunto il falco del regime, Dmitry Medvedev, al quale non difetta la franchezza. Armi no, armi sì, armi forse. Donald Trump continua a diffondere un alto grado d’incertezza sugli scenari di crisi e, segnatamente, sull’Ucraina che ora, all’ennesima piroetta, parrebbe daccapo intenzionato ad aiutare. È un pendolo perpetuo. E proietta un’ombra imponderabile sulla Conferenza per la ricostruzione del Paese aggredito che si tiene a Roma in queste ore.
Nulla di nuovo. L’unica costante del tycoon è la volubilità, annotava Bob Woodward. Durante il primo mandato, il consigliere economico Gary Cohn e il segretario dello staff Rob Porter gli facevano sparire a turno le carte dal Resolute Desk, onde vanificarne le decisioni più pericolose, puntando sul fatto che le avrebbe dimenticate in breve. «Ciò che conta non è cosa abbiamo fatto per il Paese ma quello che abbiamo impedito a Trump di fare», diceva Cohn. Il problema del secondo mandato è che il presidente non ha più attorno funzionari capaci di frenarlo ma cortigiani. L’ultima sospensione di forniture a Kiev potrebbe essere figlia di un eccesso di servilismo di Pete Hegseth, il segretario alla Difesa più realista del suo re.
Tutto questo pesa sull’evento clou che la nostra diplomazia ospita alla Nuvola di Fuksas. Quattromila delegati da novanta Paesi si ritrovano per discutere di un programma meritorio: ma per certi versi così lontano dagli eventi da apparire quasi un wishful thinking, un pio desiderio. Si tratta infatti della quarta conferenza annuale per la ricostruzione dell’Ucraina. E solo per pronunciare la parola «ricostruzione», mentre Kiev viene demolita ogni notte dai bombardamenti russi più feroci che mai, bisogna ricorrere a tutte le riserve di ottimismo della volontà.
Intendiamoci. L’iniziativa presieduta dalla premier italiana Meloni è preziosa. Basti pensare che la Banca mondiale ha stimato in quasi cinquecento miliardi di dollari il danno patito dall’Ucraina sino al 2024. E che, dunque, la ricostruzione è una priorità strategica per l’Occidente e in particolare per l’Europa. Così come è essenziale individuarne i numerosi campi di intervento per immaginare domani un Paese più moderno e più efficiente, magari membro della Ue.
Ma esiste davvero questo domani? Uno degli effetti collaterali della conferenza romana è svelare chi è ancora imbarcato nello sforzo di impedire il tracollo di Kiev e chi no. Gli americani, che pure avevano partecipato attivamente alla fase preparatoria, latitano: il segretario di Stato, Marco Rubio, sarà in Asia. Il povero Zelensky, che ormai finge di credere a qualsiasi fola gli ammannisca Trump per paura di esserne abbandonato del tutto, potrebbe incontrare a margine Keith Kellogg, un brav’uomo che nelle gerarchie trumpiane conta come il due di bastoni quando la briscola è a coppe. Il clima è assai mutato.
Biden definiva Putin «un macellaio». Trump lo considera «un grande leader». Vorrebbe revocargli le sanzioni. Poi, quando quello tira troppo la corda esponendolo a figuracce planetarie, ne minaccia di più dure, per salvare la faccia, dichiarandosi stanco delle sue «balle». A quel punto Putin pronuncia qualche parola da agnello. E Trump indossa i panni del vincitore mentre Kiev continua a essere straziata. Nuovi siparietti sono prevedibili.
ln realtà il dittatore moscovita è sempre stato chiaro sui suoi veri obiettivi e certo non deve averli omessi nell’ormai famosa telefonata col tycoon. Un colloquio del quale il Cremlino ha fornito dettagli surreali: i due cari leader si sarebbero impegnati allo scambio di «film dedicati ai valori tradizionali condivisi dalla Federazione Russa e dall’amministrazione del presidente Usa» (sic).Al di là di queste chicche postsovietiche, Putin ha ribadito che non si fermerà finché non saranno rimosse le cause a monte dell’«operazione speciale». E queste cause sono, in soldoni, l’indipendenza dell’Ucraina e l’esistenza stessa di Zelensky (sul cui destino nessuno alla conferenza romana può scommettere mezzo dollaro).
Assai meno lineare è Trump. «Se sarò eletto farò cessare il confitto in ventiquattr’ore», aveva detto in campagna elettorale. Ora sogna un Nobel (come Obama, sua vera ossessione) e l’israeliano Netanyahu ha avuto l’ardire di chiederlo per lui. Perciò vorrebbe intestarsi una pace impossibile o, persino, indecente, perché l’unica pace che Putin concepisce a Kiev è quella di un cimitero. Pur nell’insopprimibile erraticità caratteriale, Trump ha in Putin la sua stella polare, e non da ora. È lecito domandarsi perché.
Potrebbe trattarsi di un’astuta strategia: evitare di lasciare il leader russo nelle mani della Cina, compattando quel blocco antioccidentale che tanti grattacapi potrebbe dare a Washington. Purtroppo, quel compattamento è già avvenuto, persino al di là dei proclami di «amicizia senza limiti» tra Putin e Xi: da marzo 2023, secondo il think tank americano Csis, più di un componente militare critico su due importato dai russi arriva dalla Cina.
Fuori dalla geopolitica, resterebbe la variante American Kompromat, dallo scandaloso libro di Craig Unger e di molta analoga saggistica, secondo cui i russi sarebbero riusciti a mettere le mani anni fa sul futuro presidente degli Stati Uniti, coltivandolo come una risorsa, salvandolo dai guai finanziari, vellicandone il narcisismo con una «offensiva di charme» tipica del Kgb. Il 5 novembre 2024, oltre settantasette milioni di americani hanno dimostrato di non crederci. O, chissà, di non leggere saggi.