La libertà di espressione e pensiero: crederci significa difendere anche i discorsi che non ci piacciono
C’è una narrazione contemporanea che descrive l’America come una democrazia in pericolo, o già moribonda, avvelenata dagli impulsi autoritari di Donald Trump, dalle mire oligarchiche di Elon Musk. Questa la conoscete bene, è una tesi che assorbite quotidianamente stando in Europa. E c’è una narrazione simmetrica, speculare, rovesciata: uno sguardo angloamericano sull’Europa la vede preda di tentazioni illiberali, censura, limitazioni alla libertà di espressione e di pensiero.
Non solo e non necessariamente perché Viktor Orban in Ungheria o l’AfD in Germania rappresentano culture autoritarie. No, secondo questa descrizione angloamericana è l’establishment benpensante europeo a voler mettere la museruola alla democrazia perché non si fida più del popolo. L’accusa non riguarda solo la sinistra, i progressisti, ma anche le tecnocrazie moderate e centriste, tutte impegnate a «disciplinare» le democrazie europee, di fatto commissariandole.
Voi magari pensate che a vedere l’Europa in termini così negativi siano solo il vicepresidente Usa Vance e la tribù MAGA (Make America Great Again). In effetti Vance è andato a dirlo agli europei, che gli intolleranti illiberali sono loro, per le limitazioni che mettono alla libertà di parola con il pretesto dell’antifascismo. Venendo dal suo pulpito la predica viene respinta da un coro di indignazione.
Ma io invece mi riferisco ad altre voci critiche, angloamericane ma per nulla trumpiane. Due esempi recenti mi sembrano letture interessanti. Il primo è un editoriale di Walter Russell Mead, autorevole storico americano, conservatore ma non trumpiano, della scuola di Henry Kissinger.
Mead è stato invitato in Danimarca a un convegno sullo stato di salute della democrazia. Le sue riflessioni pubblicate sul Wall Street Journal dopo aver partecipato all’incontro di Copenaghen sono interessanti, venendo da un pulpito non screditato come quello di Vance.
L’altro esempio è britannico ed è perfino più sorprendente. Il settimanale The Economist, anti-trumpiano in modo netto ed esplicito, nel suo ultimo numero pubblica tuttavia un editoriale allarmato sull’attacco che l’establishment europeo progressista o moderato-centrista sta conducendo contro le libertà. Vi propongo queste due letture, in sequenza, cominciando da Mead.
Mead: «Perché i “buoni” continuano a perdere? È stata questa la domanda che ha tormentato il vostro editorialista la scorsa settimana al Copenaghen Democracy Summit. Questo incontro annuale è stato avviato nel 2018 da Anders Fogh Rasmussen, ex primo ministro danese ed ex segretario generale della NATO. Il Democracy Summit, i cui partner statunitensi negli anni passati hanno spaziato dal Carter Center al George W. Bush Institute, rappresenta ciò che un tempo si chiamava il centro vitale della politica occidentale.
Per molti partecipanti al summit, inclusi i danesi furiosi per le richieste di Donald Trump su un’acquisizione della Groenlandia, le grandi minacce globali alla democrazia sono Trump, Xi Jinping e >Vladimir Putin. In tanti piangevano la sconfitta di Kamala Harris alle elezioni del 2024; altri si preoccupavano per i successi dei partiti filotrumpiani in gran parte dell’Europa.
La verità è che il centro vitale è sulla difensiva in Europa e negli Stati Uniti da circa un decennio, e in questo periodo la democrazia ha subito un arretramento a livello globale. Joe Biden ha descritto la politica mondiale come una competizione tra democrazie e autocrazie. Ha lasciato l’incarico mentre i suoi nemici erano in ascesa. Una statistica spesso citata durante il summit: il 72% della popolazione mondiale vive sotto regimi autocratici. A tratti, l’edizione di quest’anno del Democracy Summit è parsa ispirata e piena di speranza.
Il discorso di Rasmussen, in cui ha chiesto che la spesa europea per la difesa raggiungesse il 4% o più del PIL, è stato focalizzato e chiaro. … Ma questi momenti di entusiasmo non hanno potuto nascondere le debolezze interne che minano la causa dei sostenitori della democrazia nel mondo. Troppi di loro, soprattutto in Europa, confondono la democrazia intesa come processo—elezioni libere con una stampa libera per determinare chi governa un Paese—con i risultati elettorali.
Definiscono un’elezione democratica solo se vincono le persone “giuste”. Secondo la prima definizione, qualsiasi elezione ragionevolmente libera è una vittoria per la democrazia, anche se a vincere è una persona pessima con idee pessime. Secondo la seconda, invece, le elezioni che portano al potere i candidati “sbagliati” sono considerate antidemocratiche. Una vittoria elettorale di un partito che vuole reprimere l’immigrazione illegale? Un fallimento della democrazia. La vittoria di un partito che si rifiuta di riorganizzare la società in base alle preferenze di chi si sente nato nel corpo sbagliato? Un passo avanti verso l’autoritarismo.
La vittoria di un partito che rifiuta i vincoli dell’energia verde perché troppo costosi o impraticabili? Un attacco a tutto ciò che la democrazia rappresenta. Secondo questa seconda definizione, diventa dovere dei sostenitori della democrazia sopprimere i loro oppositori interni. La polizia dovrebbe indagare i cittadini che postano tweet “antidemocratici” su persone trans o sull’immigrazione.
I governi possono e devono bandire i candidati antidemocratici o mettere al bando i partiti politici antidemocratici per il crimine di sostenere idee “non democratiche”. Non importa se queste idee sono popolari. Più un’idea “antidemocratica” diventa popolare, più diventa urgente reprimere chi la sostiene. Questo approccio è follia—un disastro assoluto e totale per la causa democratica.
La democrazia è una tigre, non un gattino. Non si tratta di sancire le preferenze culturali e politiche delle classi professionali istruite imponendole al resto della società. La democrazia riguarda l’autogoverno, non il buon governo. È, se mai, uno strumento attraverso cui la maggioranza può contenere le pretese e le illusioni di un’élite compiaciuta di sé.
Alexis de Tocqueville capiva questo molto meglio di tanti attuali sostenitori e difensori della democrazia. Vedeva la democrazia come una forza impetuosa che travolgeva gerarchie e modi di vita tradizionali. Era potente tanto per il bene quanto per il male. Era irresistibile nel lungo periodo, motivo per cui consigliava alle persone prudenti e riflessive di farci i conti e trovare un compromesso.
Ciò di cui la democrazia ha più bisogno oggi è l’unica cosa che i suoi sostenitori più rispettabili e zelanti hanno clamorosamente mancato di offrire: leadership. Le società democratiche hanno bisogno di leader che comprendano la realtà del loro tempo e sappiano ispirare i cittadini a sostenere le politiche necessarie al loro Paese.
Quando il centro vitale non riesce a produrre leader forti, i demagoghi si precipitano a colmare il vuoto. Troppi sostenitori della democrazia oggi sostengono che le masse popolari, ignoranti e testarde, abbiano tradito la causa democratica. Ma questa è una scusa. A fallire, infatti, sono le élite e gli apparati delle democrazie.
In tempi come questi, con nubi di guerra all’orizzonte e mutamenti economici e sociali che agitano le acque interne, conformismo, senilità e mediocrità non sono più ammissibili».
Editoriale di The Economist: «Quando il vicepresidente americano accusa l’Europa di non tutelare la libertà di espressione, la risposta più ovvia è che lui è un ipocrita. La Casa Bianca in cui serve J.D. Vance è una nemica dei discorsi che non approva: espelle studenti per le loro opinioni politiche, perseguita i media critici e fa pressioni sulle università. Ma il fatto che sia un ipocrita non significa che abbia torto. L’Europa ha davvero un problema di libertà di espressione. Un problema che non è distribuito in modo uniforme.
Il peggior trasgressore nell’Unione Europea è di gran lunga l’Ungheria, dove il governo ha schiacciato o cooptato la maggior parte dei media indipendenti. (Curiosamente, il partito di governo, di ispirazione pro-MAGA, sfugge alle critiche di Vance). Altri paesi che si distinguono negativamente includono la Germania e il Regno Unito.
Il divieto tedesco di negare l’Olocausto è comprensibile, vista la sua storia, ma la legge contro l’insulto ai politici è una parodia della giustizia. Chi detiene il potere ne abusa senza pudore. Un ex vice-cancelliere ha presentato centinaia di denunce penali contro cittadini, incluso uno che lo aveva chiamato “idiota”. Il mese scorso, il direttore di un giornale di destra è stato multato pesantemente e condannato a sette mesi di carcere con la condizionale per aver condiviso un meme con una foto ritoccata della ministra dell’interno che teneva in mano un cartello con scritto: “Odio la libertà di opinione”.
Tutti i paesi europei garantiscono il diritto alla libertà di espressione. Tuttavia, la maggior parte cerca anche di limitarla quando ne percepisce danni. Questo va ben oltre le forme di espressione che anche i liberali classici concordano debbano essere vietate, come la pornografia infantile, la diffusione di segreti di Stato o l’incitamento alla violenza fisica.
Spesso si estende a discorsi che feriscono i sentimenti o che, secondo l’opinione di qualche funzionario, sono falsi. In alcuni luoghi è un reato insultare un gruppo specifico (il re in Spagna; ogni sorta di persone in Germania). In Gran Bretagna è un crimine essere “gravemente offensivi” online. Le leggi sulla blasfemia esistono ancora in più di una dozzina di paesi europei.
L’intero continente criminalizza il “linguaggio d’odio”, concetto difficile da definire ma che viene costantemente esteso per includere nuovi gruppi. In Finlandia è illegale insultare una religione, ma anche citare le sacre scritture può essere rischioso: un deputato è stato processato per aver pubblicato un versetto della Bibbia sull’omosessualità.
La polizia britannica è particolarmente zelante. Gli agenti passano migliaia di ore a setacciare post potenzialmente offensivi e arrestano 30 persone al giorno. Tra i fermati ci sono stati un uomo che aveva inveito contro l’immigrazione su Facebook e una coppia che aveva criticato la scuola elementare della figlia. L’obiettivo delle leggi contro il linguaggio d’odio è promuovere l’armonia sociale.
Eppure ci sono poche prove che funzionino. Reprimere la libertà di espressione in realtà alimenta le divisioni. I populisti prosperano sull’idea che la gente non possa dire ciò che pensa davvero, un’opinione ormai condivisa da oltre il 40% di britannici e tedeschi. Il sospetto che l’establishment soffochi certe opinioni si aggrava quando gli organi di controllo dei media mostrano parzialità politica.
La Francia ha multato un canale TV conservatore per 100.000 euro per aver definito l’aborto la principale causa di morte al mondo—un punto di vista comune tra i pro-life, ma da cui il pubblico va evidentemente protetto. Le leggi sulla sicurezza online che impongono multe salate alle piattaforme social per contenuti illegali le spingono a rimuovere anche contenuti semplicemente controversi, suscitando l’ira di chi si vede censurato.
Le leggi formulate in modo generico concedono ampi poteri ai burocrati e sono un invito all’abuso. I paesi in cui questi abusi non sono ancora frequenti dovrebbero imparare dall’esempio britannico. La stretta non è stata imposta dall’alto, ma è nata quando la polizia ha scoperto che le piacevano i poteri concessi dalle leggi sull’espressione di opinioni.
È molto più facile beccare un utente su Instagram che un ladro; le prove sono a portata di clic. Quando la legge proibisce di offendere, crea anche l’incentivo per le persone a dichiararsi offese, usando così la polizia per mettere a tacere un critico o regolare i conti con un vicino. Quando certi gruppi sono protetti dalle leggi sull’odio e altri no, questi ultimi sono incentivati a chiedere protezione a loro volta.
Così, il tentativo di eliminare le parole offensive può innescare una “spirale del tabù”, in cui sempre più argomenti diventano intoccabili. Prima o poi, questo soffoca il dibattito pubblico. È difficile avere un confronto aperto e franco, ad esempio sull’immigrazione, se una delle parti teme che esprimere le proprie opinioni possa farle arrivare la polizia alla porta.
Poiché questo argomento viene sollevato con forza dalla destra populista, molti liberali europei si sono fatti scrupoli nel difendere la libertà di parola. Questo è un errore. Non solo perché leggi che possono essere usate per zittire un lato possono facilmente essere usate per zittire anche l’altro, come si vede nelle reazioni draconiane alle proteste pro-Gaza in Germania. Ma anche perché credere nella libertà di espressione significa difendere anche i discorsi che non ci piacciono. Se le democrazie non riescono a farlo, perdono credibilità, a vantaggio delle autocrazie come Cina e Russia, che conducono una lotta globale per il soft power. … Gli europei sono liberi di dire ciò che vogliono su Mr. Vance. Ma non dovrebbero ignorare il suo avvertimento. Quando gli Stati hanno troppi poteri sulla facoltà di espressione, prima o poi li useranno».