Bene i conti, ma no al liberi tutti. Bisogna ridurre il deficit. E se si vogliono meno tasse è necessario tagliare le spese
C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, anzi di antico, scriveva Pascoli. Passando dalla poesia alla prosa, verrebbe da dire lo stesso guardando l’attuale spread (ossia la differenza) tra rendimento dei Btp italiani a dieci anni e quello dei corrispondenti titoli tedeschi. Lo spread, una misura della relativa affidabilità del nostro debito rispetto a quello tedesco, è tornato dove era quasi 17 anni fa. Vediamo perché e cosa dovrebbe fare ora il governo nel preparare la legge di Bilancio per il 2026.
Dall’inizio di questa settimana lo spread è sceso sotto i 90 punti base (ossia lo 0,9%). Non accadeva dall’ottobre 2008. Eravamo già stati, negli ultimi dieci anni, su livelli intorno ai 100 punti base, ma era accaduto in occasione di massicci acquisti di Btp da parte della Bce, e solo per brevi periodi nel 2015 e nel 2021. Ora la Bce non compra più i nostri Btp. Anzi, ne sta riducendo la detenzione. Eppure, lo spread è più basso, segno di una migliorata affidabilità dei nostri titoli, confermata anche dai recenti giudizi nelle valutazioni delle agenzie di rating.
Perché questo miglioramento? Il debito pubblico è ancora alto (136% del Pil), e il deficit resta sopra al 3%: conseguentemente siamo, seppure con altri Paesi Ue, sottoposti a una «Procedura di deficit eccessivo» da parte della Commissione europea. Perché tanta benevolenza da parte dei mercati finanziari?
C’è una percezione generale che il nostro debito, seppure alto, sia meno a rischio, per un insieme di motivi. Il più importante è che il governo ha dato chiari segni di essere prudente nella gestione dei nostri conti. Nel 2024, per la prima volta da non so quando, il governo ha risparmiato un «tesoretto» di circa 20 miliardi che si era creato per il buon andamento delle entrate (invece di iniziare una discussione su come spenderlo), sicché il deficit è stato di quasi un punto di Pil inferiore all’obiettivo. Inoltre, nel settembre scorso il governo ha presentato un piano di rientro del debito addirittura più stringente di quello proposto dalla Commissione. Questo è avvenuto senza scossoni nella maggioranza: il governo è stabile, cosa sempre apprezzata dai mercati. Questa prudenza riflette probabilmente non solo la visione sui conti pubblici di Giorgetti, ma anche quella della stessa Meloni, forse per motivi ideologici: un debito pubblico sotto controllo riduce la dipendenza dall’estero. Un vero nazionalista è prudente nella gestione del debito (a meno di essere il presidente degli Stati Uniti d’America). Infine, dal 2022 la Bce ha introdotto una rete di protezione (il Tpi) che le consente di intervenire a sostegno di Paesi attaccati dalla speculazione purché questi siano in linea con le regole europee, compreso nei piani di rientro del debito e del deficit pubblico. E noi, per ora, lo siamo.
Questi sviluppi smontano la tesi per cui i mercati ce l’hanno a priori con i governi nazionalisti e che la crisi del 2011-12 fu dovuta a una congiura internazionale. Per i mercati, conta quello che si fa, non chi si è. Ma lasciamo perdere. La questione è ora cosa dovrebbe fare il governo alla luce di questi sviluppi. La tentazione è quella di stappare lo champagne (scusate, il prosecco). Sarebbe un errore. Il calo dello spread è dovuto in parte all’aumento dei tassi di interesse sul debito di Germania e Francia. E, comunque, il nostro spread resta il più alto nell’eurozona. E dobbiamo trovare spazio nei conti per il previsto aumento delle spese militari (a me la cosa non piace ma il vincolo Nato esiste) e, alla luce dell’invecchiamento demografico, per spese pensionistiche e sanitarie. I rischi restano.
Due giorni fa il ministro Giorgetti e il commissario Dombrovskis si sono incontrati e certamente avranno parlato del nostro bilancio per il 2026 e oltre. Quali sono le priorità? Sarebbe prima di tutto auspicabile uscire dalla Procedura di deficit eccessivo portando il deficit al di sotto del 3%, nonostante l’aumento della spesa militare richiesto dagli accordi Nato nel 2026. Una possibilità è quella di farlo già quest’anno. L’obiettivo di deficit per il 2025 è del 3,3% del Pil, ma le entrate dello Stato stanno anche quest’anno eccedendo le previsioni di bilancio. Con un po’ di sforzo si potrebbe scendere sotto il 3% e questo potrebbe essere sufficiente per convincere la Commissione a raccomandare l’uscita dell’Italia dalla Procedura. L’Italia potrebbe poi chiedere l’utilizzo della clausola di salvaguardia introdotta dall’Ue per consentire l’aumento della spesa militare senza rischiare di rientrare in Procedura nel 2026. Ciò detto, al netto delle spese militari (e, al di là del 2026, anche incluse le spese militari), occorre riprendere il sentiero di graduale riduzione del deficit. Insomma, il miglioramento del nostro rating e la possibilità di attivare la clausola di salvaguardia non possono diventare un «liberi tutti».E se, oltre che aumentare la spesa militare, si volesse, come sarebbe utile, anche ridurre le imposte, allora si dovrebbe avviare un’ampia revisione della spesa per trovare adeguate risorse in un bilancio che ancora eccede il 50% del Pil (sei punti percentuali sopra dove eravamo a metà degli anni ’90). Post scriptum: non guardate a me, ho già dato!