I dati del rapporto Istat su “La pratica sportiva in Italia” sono interessanti: alcuni incoraggianti, altri meno. Il divario Nord-Sud, gli abbandoni delle ragazze, l’uso delle nuove tecnologie. E quell’estate dell’82…
Pensavo di essermi preparata a tutto, la prima volta che sperimentai – sedicenne – un’esperienza all’estero senza genitori né amici. Un’estate in Germania, dintorni di Amburgo, ospite di una famiglia composta da madre, padre e due ragazze più o meno della mia età. Non ero affatto pronta, invece, a fronteggiare le serate al campo sportivo di quartiere. Due volte la settimana. Con gare finali e record personali registrati per ogni disciplina. Dai 100 metri al mezzo fondo, dal salto in lungo al nuoto. Fu uno choc culturale superiore a qualunque test di lingua. Mi sembrava incredibile che la pratica sportiva, con allenatori e preparatori itineranti in città, fosse un appuntamento condiviso tra vicini di casa e generazioni, in un clima amichevole ma a tratti decisamente competitivo. Impossibile non tifare figli contro figli o per la staffetta condominiale. A parte l’ansia da prestazione che mi devastò la vacanza (vogliamo parlare del salto in alto?), mi sembrò una prova di civiltà nord-europea.
Sono tornata a pensarci leggendo il rapporto Istat su “La pratica sportiva in Italia”. I risultati sono interessanti, alcuni incoraggianti. Nel 2024, 21 milioni e 500 mila italiani hanno dichiarato di svolgere un’attività, tra questi il 28.7% «con continuità» e l’8.7 «saltuariamente». Significa che ci prova quasi il 38% della popolazione dai 3 anni in su; nel 1995 eravamo fermi al 26.6. La crescita, inoltre, è avvenuta in chi si dichiara «costante». Invariati «gli «occasionali».
Vuol dire che la consapevolezza di quanto lo sport sia utile al benessere individuale e della società intera sta mettendo radici in un Paese che sinora ha brillato più per le eccezioni – i campioni, i Giochi, gli exploit un tempo soprattutto del calcio – che per una regola diffusa sul territorio. I divari, infatti, persistono. Gli uomini sono molto più presenti delle donne (43.4% a 31.8, ma con una forbice che va a chiudersi).Il Nord-Est è molto più attivo (43.9%) rispetto al Sud (27.9). Le metropoli migliorano la propria offerta di strutture e assistenza mentre lo spopolamento dei borghi rischia di mandare in tilt le società sportive locali, cuore di eccellenze nazionali dalla scherma al volley, e vere comunità in un deserto di altre opportunità per i più giovani.
La ricerca Istat “legge” alcuni segni classici di fatica e dispersione. Sono sempre moltissime le interruzioni al femminile: tra i 10 e i 24 anni, le ragazze abbandonano più dei coetanei (21.6% rispetto al 15 e in media un anno prima). Resiste quindi una mentalità antica (il Barone de Coubertin, lo stesso dell’importante è partecipare, pensava che l’unico ruolo delle donne all’Olimpiade fosse quello «di cingere di alloro i vincitori») e insensata (lo sport è una leva di emancipazione, di corpi e mente, come poche altre, seconda forse solo all’indipendenza economica). E resta altissima la percentuale di rinunce nella fascia di età centrale, tra i 35 e i 44 anni, per «mancanza di tempo», perché è evidente che queste attività vengono spesso vissute come un lusso, magari «una grande passione» ma destinata a indietreggiare quando il gioco della vita si fa duro.
Ci sono però anche dati nuovi e positivi. Si è ridotto il numero di quanti «non si sono mai avvicinati a uno sport». Questo grazie ai bambini, tra i 3 e i 10 anni, e probabilmente alla figura del “docente specialista” introdotto in quarta e quinta elementare. E, a sorpresa, grazie agli over 65, capaci di superare vecchi complessi di inferiorità (o pigrizia) per sfruttare al meglio una ritrovata disponibilità di tempo. Soliti Boomer autoeducati alla felicità.
Un ultimo lampeggiante di quanto stiamo mutando, e in che direzione, lo rivela la quota di chi pratica uno sport «in casa» o «da solo/a»: è passata in 10 anni dal 13.5% a oltre il 20. Dietro ci sono due spinte: quella economica, per cui ci si organizza a costo quasi zero, e quella tecnologica, per cui ci si muove con il sostegno di app, social media, siti specializzati di palestre e centri, dispositivi personalizzabili. Ci stiamo scoprendo meno sedentari, quindi, ma più solitari anche in questo spazio.
E le motivazioni? Seguono l’orizzonte mutevole delle nostre aspirazioni. Fino a vent’anni lo fai perché ti piace e ti consegna un kit di valori senza prediche. Quando ti sposti verso la mezza, la terza (o la quarta?) età vince il desiderio di «mantenersi in forma» e abbandonarsi alle endorfine. La verità è che una disciplina sportiva, declinata secondo possibilità e attitudini, ha un effetto terapeutico misto: chimico, sociale, culturale. Stimola la consapevolezza nelle proprie forze; spinge l’integrazione degli italiani di seconda generazione, nuovi azzurri sui podi; educa al confronto con avversari/non nemici e alla condivisione in squadra. E dunque al rispetto, alla generosità, sempre al coraggio. È anche dallo sport che passa la scoperta di cosa sia il patriottismo. Che non è nazionalismo.
A proposito. Quell’estate tedesca finì con poca gloria personale, nell’arena alla periferia di Amburgo. Ma l’Italia vinse i Mondiali di calcio. Era il 1982.