Dall’attacco all’Iran alla politica dei dazi con l’Europa: il nuovo volto di Trump. Russia e Cina stanno probabilmente elaborando la delusione di non avere di fronte un’America che minaccia e poi si tira indietro
Il Donald Trump che vediamo questa settimana non è il Donald Trump di due settimane fa. L’attacco americano ai siti nucleari iraniani racconta che il presidente non è solo bluff, grandi parole seguite da passi indietro. Che piaccia o meno, ha preso una decisione che molti suoi predecessori avevano evocato ma poi lasciato cadere.Stesso discorso vale per l’impegno preso dai Paesi europei a contribuire molto di più al funzionamento della Nato: altri presidenti americani lo chiedevano, con la sua brutalità Trump lo ha imposto. Due eventi che cambiano la percezione dell’inquilino della Casa Bianca e dell’America di oggi (ieri è anche riuscito a fare passare al Senato americano il suo programma di bilancio, il Big Beautiful Bill, soltanto grazie al voto decisivo del suo vicepresidente JD Vance). Come evolverà il ridisegno della mappa politica e militare del Medio Oriente è tutto da scoprire. Ci saranno le reazioni di Teheran. Il primo risultato che il bombardamento dei B-2 ha prodotto, oltre ai danni alla produzione atomica iraniana, è però il ripristino della deterrenza americana nella regione e, in proiezione, nel mondo.
Era stata danneggiata dal ritiro disastroso dall’Afghanistan nell’agosto 2021, disimpegno che probabilmente ruppe gli indugi di Putin sull’invasione dell’Ucraina sei mesi dopo. Era stata danneggiata dal ritiro disastroso dall’Afghanistan nell’agosto 2021, disimpegno che probabilmente ruppe gli indugi di Putin sull’invasione dell’Ucraina sei mesi dopo.
E come prenderà forma l’impegno dei Paesi Ue a dotarsi di una Difesa consistente è questione aperta: di certo le cancellerie ora sanno che la sicurezza dipende soprattutto da loro. È che, nelle sue decisioni spesso sconcertanti, Trump non è solo Trump, è anche il presidente degli Stati Uniti, della superpotenza che quando si muove provoca conseguenze: positive o negative ma le provoca.
Non significa che gli Stati Uniti sono tornati a essere lo sceriffo del mondo. Da un lato, gran parte dei governi europei e alcuni Paesi arabi sono sollevati nel constatare che il progetto nucleare iraniano è stato ritardato, probabilmente di anni. Ed è un fatto che il cosiddetto riarmo della Ue avvenga su spinta (eufemismo) della Casa Bianca. Dall’altro lato, però, sulla scena internazionale sono ormai presenti numerosi attori che non sono felici di vedere Washington in percussione invece che in ritirata: non li entusiasma scoprire che Trump può anche agire. Si tratta di quei governi e di quei leader che sono stati definiti «revisionisti» dell’ordine internazionale: il cinese Xi Jinping, Vladimir Putin, quei Paesi del Sud del mondo che puntano a un equilibrio multipolare senza una potenza dominante.
In altri termini, è vero che indietro non si torna: l’attacco all’Iran e una Nato più europea non ripristinano l’egemonia che Washington aveva negli Anni Novanta. Cambiano però le dinamiche che hanno prevalso in passato, alcune da decenni. Tramonta l’idea secondo la quale con Trump gli Stati Uniti sono diventati un Paese isolazionista. In realtà, l’attacco all’Iran è stato una dimostrazione di potenza in un’area del pianeta storicamente importante per Washington ma che sembrava avere perso l’interesse dei più recenti inquilini della Casa Bianca. Si è trattato del contrario dell’isolazionismo: un’azione unilaterale, se non per l’allineamento con Benjamin Netanyahu. E un’imposizione unilaterale sono state le pressioni sugli europei in ambito Nato.
Nelle scorse settimane è tramontata anche la pratica dei governi americani e di quelli europei di tentare di domare le ambizioni nucleari degli ayatollah iraniani rinviando decisioni e cercando compromessi che era chiaro Teheran non avrebbe mantenuto: non solo rispetto alla bomba ma anche al suo ruolo di destabilizzazione in più Paesi attraverso la rete di milizie alleate nel Medio Oriente. L’azione congiunta di Israele e Stati Uniti ha ora chiuso il capitolo nel quale si accettavano rinvii continui sperando nella fortuna.
Non è bello constatare l’impossibilità di risolvere situazioni di grave crisi con la diplomazia. Come non è bello sapere che per garantire la propria sicurezza occorre spendere il 5% del Pil. I tempi nuovi sono però questi, forgiati da potenze aggressive. La novità delle scorse due settimane è che gli Stati Uniti non si sono ritirati dal mondo, come era invece sembrato. L’enorme differenza rispetto al passato è che con Trump si muovono con una sfacciata logica unilaterale, per imporre la propria forza, come le grandi potenze di una volta. Anche quest’ultima non è una notizia particolarmente confortante. Una Casa Bianca che pratica episodi di bullismo e di coercizione per fare avanzare i propri interessi si piega al modello e ai modi dei bulli per eccellenza, i regimi russo e cinese. La conseguenza è che si affievoliscono le regole di convivenza internazionale a scapito di chi ha pochi muscoli. Se in questa situazione si vuole trovare il lato positivo, questo sta nel fatto che, fondamentalmente, il presidente americano non è, nonostante l’attacco in Iran, un guerrafondaio. Preferisce usare la forza dell’economia americana per imporre la sua legge e gli interessi degli Stati Uniti: con i dazi, in Ucraina, nel Golfo Persico (o d’Arabia se si vuole), in Congo. Con quali risultati, si vedrà.
Per ora, Mosca e Pechino stanno probabilmente elaborando la delusione di non avere di fronte una Casa Bianca che, come si è ironizzato di recente, funziona secondo il modello Taco, Trump always chickens out (Trump ogni volta fa marcia indietro). È che il mondo dei nostri Anni Venti è imprevedibile e veloce: con il ridisegno del Medio Oriente e con il rafforzamento della Nato, in due settimane anche Putin e Xi hanno scoperto che lo è più di quanto pensassero.