Giustizia

Le novità che si vorrebbero introdurre nel sistema giudiziario presentano delle criticità che andrebbero corrette

La cosiddetta riforma della giustizia, in corso di approvazione, si fonda su tre pilastri.Il primo è costituito dalla separazione dei Pubblici Ministeri dai Giudici, con due distinti Csm, uno per i pm e l’altro per i giudici. Il secondo sottrae ai magistrati il potere di eleggere i propri rappresentanti ai Csm, che sarebbero invece costituiti per sorteggio. Il terzo pilastro è costituito dall’attribuzione della funzione disciplinare ad un’Alta Corte, sottraendola ai due Csm, che manterrebbero solo le funzioni di gestione della «carriera», dei pm l’uno, dei giudici l’altro.
Un riequilibrio nei rapporti tra magistratura e istituzioni politiche, parlamento, governo, partiti, è necessario ed era stato auspicato da chi scrive nel lontano 1993, in piena Tangentopoli. Ma questo non è né un riequilibrio, né una riforma della giustizia. Non tocca la tragedia delle carceri e non rende i processi più rapidi.
La separazione delle carriere è attuata in modo autolesionistico. La legge Cartabia, saggiamente, non separava i pm dai giudici, ma prevedeva la possibilità di un solo passaggio da una funzione all’altra e solo nei primi dieci anni di esercizio delle funzioni. Con questa riforma, invece i Pm diventano una istituzione separata con un proprio organo di autogoverno, pienamente indipendente, priva di vincoli gerarchici. Questa separazione accentuerà il carattere puramente investigativo, non giurisdizionale, della loro funzione, renderà più frequenti i rapporti anomali con i mezzi di comunicazione, produrrà una sorta di integrazione con la polizia giudiziaria, che sostituirà l’attuale dipendenza della polizia giudiziaria dai pm, mentre l’obbligatorietà dell’azione penale coprirebbe ogni eventuale abuso investigativo.
In questa Legislatura sono state introdotte sinora circa 50 nuove figure di reato, che si triplicano se si considera che ciascuno di questi reati può essere tentato o può essere oggetto di un’associazione per delinquere. In pratica si introducono nell’ordinamento circa 150 nuove possibilità d’intervento delle Procure nella vita della società, della politica e dei cittadini; interventi obbligatori, data l’obbligatorietà dell’azione penale. L’istituzione dei pm come «casta» non è coerente con questa preoccupante espansione del loro potere d’intervento. La separazione dei pm dai giudici è prevista in quasi tutti i paesi dell’Europa continentale, ma, proprio al fine di evitare aggregazioni pericolose per i diritti di tutti, comuni cittadini e politici, e per garantire una tendenziale omogeneità dell’esercizio dell’azione penale su tutto il territorio nazionale, la separazione è accompagnata da una rigida dipendenza dal Ministro della giustizia, o, come in Portogallo, da un procuratore nominato dal Parlamento, che può anche non essere un magistrato. Nella riforma, invece, non è prevista alcuna garanzia per l’esercizio tendenzialmente omogeneo dell’azione penale. Ciascuno dei circa 2.000 pm potrà esercitare l’azione penale secondo le proprie personali preferenze.
Il secondo pilastro è costituito dalla abrogazione per i magistrati ordinari del diritto di eleggere i propri rappresentanti nell’organo di autogoverno. Invece il diritto elettorale resta per i magistrati del Consiglio di Stato e della Corte dei Conti, istituzioni prestigiose, ma nelle quali le correnti delle diverse associazioni hanno un peso equiparabile a quello delle correnti dell’Anm. Attraverso il sorteggio si intende cancellare il rilievo delle correnti; ma è prevedibile che alcuni dei sorteggiati apparterranno comunque ad una corrente; il meccanismo quindi non impedisce la ricostituzione di quelle catene clientelari che nel recente passato, non oggi, hanno devastato il funzionamento e l’immagine del Csm.
Passiamo al terzo pilastro. L’Alta Corte ha la competenza disciplinare sia nei confronti dei pm che nei confronti dei giudici. È composta da quindici membri, tre nominati dal Presidente della Repubblica tra professori ordinari di università in materie giuridiche e avvocati con almeno venti anni di esercizio, tre estratti a sorte da un elenco di soggetti con gli stessi requisiti, che il Parlamento in seduta comune, elegge entro sei mesi dall’insediamento e, infine, da sei magistrati giudicanti e tre requirenti, estratti a sorte tra gli appartenenti alle rispettive categorie con almeno venti anni di esercizio delle funzioni giudiziarie e che svolgano o abbiano svolto funzioni in Cassazione. Al di là del barocchismo della procedura di nomina, la riforma lascia in ombra due aspetti non secondari.
Oggi i procedimenti disciplinari possono essere avviati o dal Ministro della Giustizia o dal Procuratore Generale (Pg) presso la Corte di Cassazione. Il primo ha sempre fatto un uso assai parco di questa prerogativa; quando l’ha esercitata ha poi demandato al Pg presso la Cassazione la concreta gestione del procedimento disciplinare. Ma domani il Pg della Cassazione, ormai del tutto separato dai giudici, potrà esercitare o gestire adeguatamente l’azione disciplinare nei loro confronti? Il secondo aspetto lasciato nel buio dalla riforma riguarda l’impugnazione. Secondo la riforma «Contro le sentenze emesse dall’Alta Corte in prima istanza è ammessa impugnazione, anche per motivi di merito, soltanto dinanzi alla stessa Alta Corte». Non sarebbe perciò applicabile ai magistrati l’art. 111 della Costituzione che fissa un principio generale dell’ordinamento, garantendo a tutti i cittadini il diritto a ricorrere in Cassazione per motivi di legittimità (conformità alla legge) contro tutte le sentenze. I magistrati sarebbero privati di un diritto garantito a tutti gli altri cittadini? Probabilmente non è questo l’intento, ma un chiarimento sarebbe necessario.
L’applicazione della riforma non è immediata; qualora superi il referendum, entrerà in vigore quando il Parlamento approverà le norme applicative. È sperabile che nel corso del lavoro di redazione di queste norme, ci si renda conto della necessità di correggere alcuni errori.

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