La consultazione dell’8 e 9 giugno: l’astensione è contemplata e legittima. Ma segna un’ulteriore avanzata del disinteresse verso lo stato del Paese
Si è parlato parecchio di consigli su come impiegare i prossimi 8 e 9 giugno: stare a casa, passare il tempo con i figli per chi li ha, concedersi una vacanzina. Si è discusso pochissimo, al limite del niente, delle materie per cui saremo chiamati ad esprimerci proprio quell’8 e 9 giugno. Eppure sono temi tutt’altro che marginali. Quattro riguardano il lavoro, con questioni relative a sicurezza, licenziamenti, contratti a termine, appalti. Uno, la cittadinanza per gli stranieri, che prevederebbe la riduzione da 10 a 5 gli anni per ottenerla, in linea con Francia, Germania, Paesi Bassi e tanti altri.
Sono referendum abrogativi, come quasi tutti quelli tenuti in Italia dal 1946, e quindi hanno necessità di raggiungere il 50 per cento degli aventi diritto per essere validi. Il modo da sempre più rapido per disarmare gli effetti di un referendum, salvo disattenderne a posteriori gli esiti, è che si spenga da solo, cancellato dall’agenda per assenza di quorum. A parte la parentesi ad alto tasso di partecipazione tra il 1974 e il 1995 (divorzio, aborto, finanziamento pubblico ai partiti), da allora solo 4 su 29 sono riusciti nell’impresa. E tutto lascia intendere che la tornata che tra poco ci attende non alzerà la media, con sobria soddisfazione della maggioranza di governo che avrà così mandato a vuoto un disturbo proposto in parte dalla Cgil (i quesiti sul lavoro) e in parte da una composita alleanza di forze politiche e sociali (tra cui +Europa, Possibile, i Radicali).
Non è la prima volta che i potenti di turno sbeffeggiano i tentativi di riforme dal basso. Nel 1991 Bettino Craxi, figura allora centrale non solo del governo Andreotti, invitò gli italiani ad andare al mare davanti alla proposta di una modifica del sistema elettorale avanzata da Mario Segni, che cominciava col ridurre le preferenze. Finì con un 62,5 di votanti, un plebiscito di sì e di fatto rappresentò l’inizio della crisi della Prima Repubblica. Vent’anni dopo, nel 2011, Berlusconi premier spinse per l’astensione su nucleare e acqua pubblica: 27 milioni e mezzo di italiani votarono invece a favore, quasi il 55 per cento. Anche Matteo Renzi definì una bufala il referendum sulle trivelle, appellandosi anche a un giudizio più argomentato dell’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Vinse Renzi con ampio margine, e qui lo ricordiamo soltanto perché il parere di Napolitano è stato tirato in ballo in questi giorni come esempio che anche le Alte Cariche possono dire la loro su referendum e dintorni. Si potrebbe obiettare che Napolitano stava parlando da ex Presidente, e non da capo dello Stato. E che le parole che consegnò allora a Repubblica erano state un po’ forzate allo scopo: «Se la Costituzione prevede che la non partecipazione della maggioranza degli aventi diritto è causa di nullità, non andare a votare è un modo di esprimersi sull’inconsistenza dell’iniziativa referendaria».
La libertà di voto è un diritto così fondamentale e così esteso che contempla anche il suo contrario: il diritto a non votare, con tutte le conseguenze di caso in caso. Trattandosi di referendum con quorum la conseguenza è totale e, da come si prospetta, letale. Ne sarà pago Ignazio La Russa, presidente del Senato in carica, che per primo e dalla postazione più alta ha inaugurato il fronte, ormai sempre più affollato, del «meglio non votare». E non c’è niente di incostituzionale a sostenerlo, a parte un paio di considerazioni. La prima è proprio relativa alla Carta e alla sua lungimiranza. Articolo 48: «L’esercizio del voto è un dovere civico». Non un obbligo, si badi bene, ma un impegno che i cittadini sono invitati a rispettare nello spirito di contribuire alla costruzione di quell’Italia che proprio la Costituzione immagina come un progetto in divenire, da migliorare per tenere il passo con le sfide che la modernità avrebbe proposto.
a seconda considerazione è più contingente. Non è mistero, tantomeno per chi governa e comanda, che la curva della partecipazione somiglia al grafico di un’azienda in crisi. Alle Europee del 2024, per la prima volta nella storia della nostra Repubblica ha votato meno del 50 per cento, record assoluto (per adesso). E le Politiche del 2022 hanno registrato l’affluenza più bassa tra tutte le elezioni dei grandi Paesi dell’Unione europea: 64 per cento, con il partito che ha vinto, Fratelli d’Italia, che ha ottenuto il 26 per cento di quel 64 (16 italiani su 100, più o meno).
Che la deriva sia questa, e non solo da noi, non è un dato ineluttabile ma un problema con cui misurarsi, specchio di una sfiducia sempre più diffusa nella politica, forse anche nelle istituzioni, sfiducia nella possibilità che il proprio voto abbia un qualche effetto rispetto ai cambiamenti ritenuti necessari o indispensabili. E allora sto a casa, come sbrigativamente mi consigliano.
Ecco, l’8 e 9 giugno rischia di succedere un’altra volta proprio questo: un ulteriore invito a lasciare fare a chi se ne intende, a non preoccuparsi di cose che vanno gestite in altro modo e in altri luoghi. È una discesa a balzi verso una democrazia prosciugata della sua linfa vitale, cioè la partecipazione attiva, tornare a votare, disturbare il manovratore ogni volta che lo si ritenga necessario.
Si profila invece una vittoria fasulla: l’astensione è contemplata, pienamente legittima, ma segna un’ulteriore avanzata del disinteresse verso lo stato del Paese e il suo futuro prossimo. Meglio sarebbe consigliare altro: chi non è d’accordo con i 5 quesiti referendari, vada ai seggi e scriva 5 no. Magari informandosi un po’ prima di che cosa si tratta, che è un diritto saperlo, non una irrispettosa pretesa. Il Servizio Pubblico, cioè la Rai, sarebbe lì anche per quello.