Si tratta di mettere la pace «al principio», anziché alla fine, e dunque di includerla nel nostro orizzonte mentale come possibilità almeno altrettanto naturale quanto il conflitto
Com’è stato possibile arrivare a questo punto? A credere che tutto sia definitivo, irrevocabile? La violenza, il male, la guerra: a pensare che tutto sia ovvio, naturale?
Come se niente potesse resistervi, tantomeno il diritto. Come se fosse, il diritto, una cosa inutile e priva di valore; o come se, nella migliore delle ipotesi, a nient’altro dovesse servire se non a punire e sanzionare – e sanzionare sempre più severamente. A replicare a sua volta la violenza, a legittimare il male e qualunque nefandezza.
Eppure non è questa la funzione che il diritto dovrebbe svolgere, come ci ricorda ora Tommaso Greco in un libro appena uscito da Laterza, «Critica della ragione bellica», che non è solo bellissimo. È molto di più: è un libro necessario, perché ci induce a smuoverci da tutti quei «ricorrenti pregiudizi» e quelle «radicate convinzioni» che troppo spesso ci portano a «mutilare» la realtà, per guardare invece a «ciò che di positivo in essa è possibile ritrovare e valorizzare», a cominciare dalla «realtà della pace».
Tommaso Greco ci invita a concepire la pace non semplicemente come «assenza di guerra», ma cercando piuttosto «di darle un fondamento solido, di ancorarla ad un presupposto che riesca a sostenerla al di là del suo riferimento alla guerra». Si tratta, in altre parole, di mettere la pace «al principio», anziché alla fine, e dunque di includerla nel nostro orizzonte mentale come possibilità almeno altrettanto naturale quanto il conflitto: scommettendo sul fatto che le relazioni possano essere preservate, curate, mantenute. Ed è la stessa logica fondativa del diritto, ci ricorda appunto Greco: una logica non della forza, ma del riconoscimento e della relazione, non del dominio ma dell’unione e della cooperazione. Tanto nei rapporti fra le persone quanto in quelli fra gli Stati, tanto nel diritto interno di ciascun Paese quanto nel diritto internazionale.
Nelle pagine conclusive del suo ultimo libro, «I sommersi e i salvati», Primo Levi esprimeva pensieri identici, nella sostanza. «È stato oscenamente detto», scriveva, «che di conflitto c’è bisogno: che il genere umano non ne può fare a meno». Per poi osservare: «Sono argomenti capziosi e sospetti. Satana non è necessario: di guerre e violenze non c’è bisogno. Non esistono problemi che non possano essere risolti intorno a un tavolo». È una questione di volontà, insomma, mai di ineluttabilità. E dovremmo assumerci allora il coraggio e la responsabilità delle nostre scelte e delle nostre azioni, anche rispetto al diritto: siamo noi a generarlo, è da noi che dipende la sua efficacia, siamo noi a farlo vivere ogni giorno in un senso o in un altro, attraverso i nostri comportamenti, il nostro modo di abitare il mondo.