
Il presidente Usa non sta sostituendo la globalizzazione con un suo neomercantilismo. Un business anche per se stesso
Mentre il Medio Oriente è in ebollizione, dalla Palestina alla Siria, passando per la minaccia houthi nel Mar Rosso e per la tentazione di Israele di colpire gli impianti nucleari dell’Iran, Donald Trump dedica il primo viaggio del suo secondo mandato a tre Paesi del Golfo in un’ottica soprattutto di business. E lo rivendica. Di più: un presidente che vede tutto, anche politica estera e dazi, come dealmaking, ha usato una logica da asta per questo primo viaggio: «L’altra volta ho cominciato dall’Arabia che comprava 450 miliardi di dollari di nostri prodotti. Se lo rifanno, anzi dovrebbero essere 500 con l’inflazione, vado di nuovo». Immediata la risposta del leader saudita bin Salman: 600 miliardi. Dobbiamo rassegnarci, dalle miniere ucraine al Medio Oriente, a una politica estera trasformata in diplomazia commerciale?
Si può restare attoniti davanti alla disarmante naturalezza con la quale Donald Trump mette gli affari davanti a tutto, ma, prima di condannare, meglio analizzare e distinguere tra le operazioni commerciali che hanno anche un risvolto politico e affari invece concepiti nell’unico interesse personale di Trump e della sua famiglia.
Anche nel primo mandato Trump cominciò dai sauditi rompendo la tradizione dei primi incontri riservati a vicini e alleati più stretti (Canada, Messico, Gran Bretagna), ma poi andò anche in Israele e, comunque, quel rapporto con Riad e la diplomazia degli affari nel Golfo sviluppata soprattutto dal genero Jared Kushner nell’incredulità generale (anche di chi scrive) aprirono la strada agli «accordi di Abramo» che hanno segnato la prima svolta positiva tra Israele e mondo arabo dopo decenni di tensioni crescenti: una strategia diplomatica successivamente seguita anche da Joe Biden fino ai massacri nello Stato ebraico perpetrati da Hamas nell’ottobre del 2023.
Stavolta Trump ha scelto una logica da America First coi contratti di forniture militari ai sauditi per 145 miliardi di dollari e col tentativo di difendere una valuta Usa indebolita proprio dalle sue sortite (dazi, attacchi all’autonomia della Federal Reserve, erosione delle garanzie di legalità) spingendo Riad a non integrarsi nei Brics: un ostacolo per i Paesi emergenti che, guidati dalla Cina, stanno pensando di poter creare una valuta mondiale di riferimento alternativa a quella Usa.Ma il presidente ha anche mandato potenti segnali politici con un’estensione e un’omissione: da un lato l’allargamento delle nuove alleanze commerciali al Qatar che nel 2017 era stato, invece, ignorato da Trump. Troppo vicino all’Iran e, quindi avversario.
Oggi non solo torna il sereno con Doha, ma il presidente accetta il dono di un Boeing 747 della famiglia reale mentre le aziende della sua famiglia fanno accordi che consentiranno loro di incassare royalties da Qatar Diar, la parte immobiliare del fondo sovrano di questo Stato del Golfo: cosa che, oltre al malumore di Israele, solleva le critiche di molti attivisti Maga di ultradestra che hanno fin qui sostenuto Trump con grande determinazione.
L’omissione, poi, è la mancanza di una sosta in Israele: segno tangibile dell’irritazione di Trump nei confronti di Netanyahu. Che rimane un alleato fondamentale per gli Stati Uniti ma la Casa Bianca non sembra più disposta a subire le sue forzature e si muove con indipendenza con gli houthi, a Teheran e, forse, anche coi palestinesi.
Insomma, entro certi limiti anche una diplomazia basata su fattori commerciali può avere una sua rilevanza politica. E, comunque, i governi hanno sempre usato le relazioni internazionali anche a questi fini. Negli anni Settanta del secolo scorso i socialisti francesi accusavano Giscard d’Estaing di essere un mercante d’armi. Poi, quando conquistarono l’Eliseo, Francois Mitterrand si trasformò (anche)in uno straordinario venditore di caccia Mirage a mezzo mondo, dall’India all’Egitto, passando per Iraq ed Emirati.
Ma Trump non sta semplicemente sostituendo la globalizzazione col suo neomercantilismo. Fa affari giganteschi per sé stesso e per la sua famiglia con le Trump Tower che sorgeranno nel Golfo, hotel e golf resort e, soprattutto, con le criptovalute: le considerava truffaldine e una minaccia per il dollaro ma, fulminato insieme ai figli sulla via dei crypto-guru della Silicon Valley, ora le ha sposate fino al punto di emettere quelle con la faccia sua e di Melania e di creare una grossa società, World Liberty Financial, per gestire il business. Nel quale il solo Abu Dhabi, il più ricco degli emirati, si è impegnato a investire 2 miliardi di dollari.
Fondi e affari che vanno ad arricchire i Trump in apparente contrasto con la Costituzione che vieta al presidente di ricevere emolumenti dall’estero. Al di là delle questioni etiche, comunque di grande rilevanza, queste azioni e tutte le altre iniziative di Trump che indeboliscono il rule of law, così come i dazi messi e tolti con logiche da partita a poker e con intenti punitivi, finiscono per minare la credibilità degli Stati Uniti come partner politico e militare e anche come rifugio sicuro per il risparmio mondiale. Fin qui la forza del dollaro si è basata, oltre che sulle baionette, sulle garanzie legali e su un mercato libero e mercato aperto, senza limiti o rischi di penalizzazioni o confische da regime autocratico.
Con la mancanza di certezze Trump rischia di bloccare gli investitori. Col suo autoritarismo — sentendosi onnipotente anche nei mercati — può minare il dollaro e l’appetibilità dei titoli del Tesoro rendendo assai più oneroso il finanziamento del debito pubblico americano.