La crisi della rappresentanza: il vuoto che si è prodotto viene riempito dal corporativismo degli interessi organizzati

Una società libera non può vivere senza partiti, ha scritto nel 1840 il maggiore studioso della democrazia moderna, Alexis de Tocqueville. Se i partiti — come sta accadendo in quasi tutte le democrazie — si sfaldano e svaniscono, chi mantiene i legami tra società e Stato? Vi sono elezioni sempre più frequenti, ma queste non bastano, anche perché quasi ovunque l’astensionismo cresce. Sono sufficienti gli altri legami, quelli personali, familiari, clientelari, di clan, corporativi, a mantenere i legami tra società e Stato?
I partiti dell’800 e specialmente quelli del ’900, come scrisse il loro maggiore studioso, Maurice Duverger, in un libro del 1951, avevano un gran numero di associati, una possente articolazione, con diramazioni locali, robuste strutture dirigenti, che mantenevano rapporti stabili con le rappresentanze parlamentari, una intensa attività interna (riunioni, dibattiti, convegni, congressi). Erano aggregazioni superiori alle fazioni e alle corporazioni. Erano palestre di democrazia e fungevano, con i media, da educatori collettivi. Oggi quasi ovunque sono pochissime le cosiddette forze politiche che conservano la denominazione «partito» (una sola, nel Parlamento italiano); gli iscritti diminuiscono (in Italia, da 4 milioni a meno di 700 mila, mentre la popolazione è aumentata di 10 milioni). Inoltre la vita associativa langue; le strutture periferiche sono assenti o inattive; i congressi nazionali si tengono a grande distanza di tempo; i titolari delle cariche interne restano ben oltre la durata statutaria; la vita democratica interna è inesistente o ridottissima; gli statuti non vengono rispettati; i capi — talora non scelti dagli iscritti — sono forti non per la loro capacità di leadership, ma perché decidono chi mettere nelle liste elettorali; politiche, programmi, piattaforme sono inesistenti o comunque non discussi in assise locali e nazionali.
Questo provoca una asimmetria tra partiti al governo e partiti di opposizione. Chi deve governare dispone delle leve del potere, è tenuto ad annunciare programmi e rispettarli, propone e approva leggi. Chi non è al governo, se non fa programmi e non ha una piattaforma politica, finisce per esaurire le sue forze nel punzecchiare con slogan quotidiani chi governa e per non trovarsi in mano nulla se non la speranza di passare, un giorno, in maggioranza.
Intanto, però, senza partiti e senza politica, come si mantengono i rapporti tra Stato e società, intermediati, una volta, dai partiti-associazioni? Il vuoto che si è prodotto viene riempito da una forma nuova di corporativismo, nel quale prevale la voce degli interessi organizzati. Le associazioni, i gruppi, le categorie, si sostituiscono alle classi e ai partiti, e diventano gli intermediari tra potere pubblico e società civile. Lo spazio pubblico è occupato da balneari, portuali, tassisti, e da mille altri interessi organizzati meno visibili, ma non per questo meno attivi. Quindi, prevalgono gli interessi particolari sulle opinioni, sui convincimenti o sui principi.
Chi governa — privo del tramite dei partiti, che agivano come filtri e costretto, comunque, ad ascoltare la voce della società — rimane prigioniero di categorie, sindacati, gruppi. I negoziati, gli scambi, i compromessi non avvengono — come una volta — su idealità, opinioni, programmi, ma su interessi. Chi dispone delle leve del potere subisce tutte le richieste corporative, specialmente se provengono dalla macchina dello stesso Stato (nella quale vi sono sempre postulanti da soddisfare), da chi aspira a entrarvi (la crescita delle cosiddette partecipate, che avrebbero dovuto essere ridotte, ne è solo un esempio, per l’Italia) o da chi vuole o non vuole una legge (ad esempio, le proteste francesi per le pensioni).
Questa deriva neocorporativa, anche se mantiene un qualche rapporto Stato-società, produce disillusione, allontanamento dagli ideali della politica, ulteriore riduzione della vita democratica interna di quelle che vengono chiamate forze politiche, abbassamento del livello della competizione pubblica, ricerca continua di favori. E questo accade nonostante che fioriscano le scuole di politica e che i più giovani siano alla ricerca di luoghi di aggregazione, di discussione, di formazione a vivere nella comunità.
Se i partiti, da strumento essenziale della democrazia, sono diventati essi stessi non democratici. Se, di conseguenza, la loro capacità aggregativa e rappresentativa si è ridotta. Se lo Stato è quindi privato di un canale essenziale di comunicazione con la società. Se i governi, privi del supporto dei partiti, sono indotti ad ascoltare interessi e non opinioni (o interessi non mediati da opinioni). Se questa trasformazione provoca l’allontanamento dei cittadini dallo Stato, di cui abbiamo tante prove, a cominciare dalla diminuzione dei votanti. Se accade tutto questo, dobbiamo temere che i sistemi politici non riescano più a bilanciare rispetto dei diritti, partecipazione, eguaglianza e sviluppo, come sono riusciti a fare finora, o possiamo sperare che l’unico protagonista di questo declino, la società stessa, trovi la forza per invertire la rotta e scoprire modi nuovi per riaprire il dialogo tra Paese reale e Paese legale?

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