No al protezionismo o al green deal rimaneggiato: ma una strategia come quella adottata nel 1976 per l’acciaio
«I produttori di auto europei sono stati surclassati da Tesla e dai cinesi nella transizione all’elettrico; nel 2023 hanno fatto un record di utili e pagato molti dividendi invece di investire in innovazione». Questa e altre critiche circolano a Bruxelles nei corridoi delle istituzioni europee.
«Il green deal è un pessimo deal: non è stato capace di creare domanda di auto elettriche come in Cina, la scadenza del 2035 per smettere di vendere auto benzina e diesel è ridicola e le sanzioni ai produttori bloccano il mercato e penalizzano l’industria». Questo è invece il tono delle crescenti critiche al green deal dei produttori di auto europei.
In queste settimane la Ue ha varato una proposta per un nuovo green deal a cui non mancano le ambizioni. Purtroppo, però, mancano le risorse per realizzarle. Viene confermato, anche se con una qualche flessibilità, il «divieto» al 2035 di vendere auto tradizionali e le sanzioni. Quanto alle risorse per l’investimento pubblico più cruciale per creare domanda di auto elettriche, le colonnine di ricarica, sembrano mancare 20 mdi di investimenti per andare dall’attuale milione di colonnine (in gran parte finanziate da privati) al 3/3.5 milioni previsti per il 2030. La Cina già nel 2025 ha 4 milioni di colonnine pubbliche finanziate da un massiccio investimenti infrastrutturale pari a quasi 20 miliardi nel solo 2024
Dal canto loro i produttori europei chiedono un ritorno al passato sulle politiche green e protezione dalla concorrenza cinese: eliminazione sine die del divieto al 2035 e delle sanzioni, sussidi pubblici (per le gigafactory delle batterie) e, soprattutto, dazi contro le auto cinesi.
La realtà è che la poca domanda di auto elettriche in Europa è stata solo la goccia che ha fatto traboccare il (grosso) vaso dei problemi dell’auto europea. L’eccesso di capacità produttiva latente da anni è di recente esploso perché il mercato è sceso da 18 milioni nel 2007 a 10 nel 2023. A ciò si aggiungono i costi di avere due gamme (elettriche e tradizionali) che non hanno gli specialisti dell’elettrico (la cinese BYD e Tesla). Il più grande player europeo, la Volkswagen, ha anche praticamente perso il mercato più grande nel mondo, quello cinese, che da anni forniva vendite e profitti, perché stata totalmente surclassata dai produttori cinesi che nel proprio mercato fanno prezzi stracciati. E, dulcis in fundo, l’auto europea è in forte ritardo sulle tecnologie digitali.
E i dazi contro le auto cinesi? Non sono la soluzione. Dazi e autolimitazioni delle quote di vendita in Usa e Europa sono stati efficaci negli anni 80 contro i produttori giapponesi perché il loro vantaggio non era «strutturale», ma gestionale (tecniche di produzione innovative come il «just in time») e i produttori europei e Usa lo hanno colmato in 15 anni. Il gap di oggi contro le auto elettriche cinesi è invece strutturale: un mercato domestico molto più grande di quello di Usa ed Europa messi assieme (15 milioni di auto elettriche contro 4) e vantaggi competitivi nella produzione dei materiali per le batterie grazie a costi del lavoro e dell’energia molto inferiori.
Rallentare ulteriormente la transizione all’elettrico in Europa, inoltre, penalizzerà i consumatori europei che avranno meno tempo per adeguarsi (installazione di ricariche a casa propria, cambiamento degli stili di utilizzo dell’auto) oltre a essere penalizzati dai dazi. L’industria dell’auto europea si ritroverà a servire un mercato con un peso decrescente nel mondo e con prodotti poco competitivi. Difficile che si salvi nel lungo termine. Lo hanno capito i migliori manager dell’auto europea che oggi vanno a lavorare per i cinesi (Alfredo Altavilla) o in altri settori con più futuro (Luca De Meo in Kering)
Per questo il green deal europeo deve essere completamente ripensato e non solo per eliminare giustamente i divieti e le sanzioni. Bruxelles deve ripensare l’obbiettivo di fondo che non può più essere quello di restituire l’antico fulgore a un intero settore cardine dell’economia europea, ma il tentativo di far sopravvivere almeno un paio di produttori e creare opportunità per i migliori componentisti e per tecnologie avanzate dove l’Europa può ancora competere, come il software. Dovrà poi investire molto di più in colonnine di ricarica di quanto prevede oggi, non tanto per salvare i produttori europei, ma per permettere ai consumatori europei di auto di tenersi alla pari con l’innovazione
La più importante iniziativa del green deal dovrebbe però deve essere orchestrare la ristrutturazione del settore auto, abolendo la corsa al rialzo nei sussidi tra Paesi europei per tenere aperte le fabbriche e favorendo il consolidamento delle imprese. Il tutto assistito da un conseguente e gigantesco piano sociale di riconversione per una parte importante dei 12 milioni di lavoratori del settore e dell’indotto.
Una cosa simile è già stata fatta. Negli anni 70 l’acciaio europeo entrò in una crisi strutturale profonda per il rallentamento della crescita della domanda e l’aumento dei costi dell’energia. Gli Stati facevano a gara a chi sussidiava di più i propri campioni nazionali, spesso pubblici. L’Europa intervenne nel 1976 e sotto la leadership di Etienne Davignon (commissario europeo per l’industria) sviluppò e attuò un piano per coordinare politiche nazionali di riduzione di capacità e di impianti inefficienti. Il tutto con un gigantesco piano sociale che ridusse l’occupazione del 70 %.
L’auto europea ha oggi bisogno di un piano Davignon, non di protezionismo o un green deal rimasticato.