Serve un europeismo maturo, realista, che non spacci l’Europa per un pranzo di gala, consapevole degli ostacoli e dei problemi
Tra Scilla e Cariddi. Non fa bene all’Europa la mancanza di realismo con cui troppo spesso i temi continentali vengono presentati al grande pubblico. Siamo stretti fra le bugie degli anti-europeisti che, in giro per l’Europa promettono nuove età dell’oro se solo ci si disferà della «dittatura» di Bruxelles (Come no? Ne sanno qualcosa i britannici) e il wishful thinking — che significa scambiare i propri sogni per realtà — di tanti europeisti. Serve un europeismo maturo, realista, che non spacci l’Europa per un pranzo di gala. Un europeismo maturo, consapevole degli ostacoli e dei problemi. Consapevole, ad esempio, che l’Unione sia una costruzione che ha imposto forme di dirigismo, di cui non c’era affatto necessità, in tanti ambiti (era la sacrosanta critica della Gran Bretagna quando era ancora membro dell’Unione) e che bisognerebbe correre ai ripari.
Ancora: serve un europeismo che non finga di non vedere che l’Unione è una arena competitiva ove coesistono accettazione dei vincoli di interdipendenza fra i Paesi dell’Unione e costanti tentativi da parte dei vari governi di imporre il proprio interesse a scapito degli interessi altrui. La Germania lo ha fatto per parecchio tempo con successo. E non c’è Paese europeo che, a sua volta, se e quando può, non ci provi. E infine: serve un europeismo che, quando invoca l’unità politica, non immagini un «governo»(democratico) dell’Europa in tutto e per tutto simile ai governi nazionali.
Una cosa del genere non ci sarà nel prossimo futuro e forse non ci sarà mai. Anche se (irrealisticamente) decidiamo di ignorare il peso e la forza delle differenti tradizioni nazionali, è sufficiente immaginare cosa passerebbe per la testa di un povero elettore europeo chiamato a scegliere fra candidati che parlino una lingua diversa dalla sua. Per capire cosa dicano e propongano avrebbe bisogno dell’interprete. Come potrebbe mai funzionare una simile democrazia su scala continentale?
Se non si sfascerà tutto (e sarebbe una disgrazia per tutti noi) l’Europa sarà anche in futuro una costruzione complessa con vari livelli che si intersecano e meccanismi decisionali differenti a seconda dei problemi in gioco. Né una federazione né una confederazione in senso classico. Ma ciò non significa che non esista, almeno sulla carta, la possibilità di azioni tese a rendere l’Europa più forte e quindi capace di difendere il tenore di vita e la libertà dei suoi cittadini, assicurare le condizioni di un vigoroso sviluppo economico, garantire la propria sicurezza.
Facciamo due esempi. Il primo riguarda la difesa. Nelle nuove condizioni internazionali la difesa dell’Europa può dipendere solo da un convergente impegno dei Paesi europei sia che facciano parte sia che non facciano parte (come la Gran Bretagna) dell’Unione. Il che significa, in ultima istanza, creare (o tentare di creare ) la «gamba europea» della Nato, l’unica organizzazione che possieda il know how necessario per assicurare il coordinamento fra gli eserciti. Ciò implica anche una collaborazione sempre più stretta fra Unione europea e Nato. Chi pensa a una «difesa europea» che prescinda dalla Nato è fuori dalla realtà.
Il secondo esempio riguarda quanto di buono è possibile fare in sede di Unione europea se si riesce a superare i veti e la forza di gruppi (politici, economici, burocratici) che hanno sempre lavorato sotto traccia per bloccare ogni tentativo di rafforzare l’integrazione sotto il profilo economico e finanziario. Se c’è qualcosa di buono nella guerra dei dazi scatenata da Trump è che è almeno servita a mettere sotto i riflettori i dazi europei, il protezionismo europeo.
La storia a volte procede per paradossi. Un eventuale accordo fra Trump e l’Europa in materia di commercio potrebbe dare una botta al protezionismo europeo. Con grande vantaggio per i consumatori. Nonché per le aziende europee sane, quelle che non hanno bisogno di protezione, che non temono la concorrenza. Citato e riverito da tanti che non hanno alcuna intenzione di seguirne le indicazioni, il rapporto Draghi ha mostrato come la frammentazione del mercato europeo impedisca alle imprese di crescere e di diventare competitive, nei settori di punta, nei confronti delle corporations americane e cinesi. Lobbies potenti, ben radicate nei diversi Paesi europei, sono responsabili delle tante strozzature e vincoli a cui è sottoposta l’economia europea.
Se molte di quelle strozzature e vincoli venissero eliminati o indeboliti ci guadagneremmo tutti. L’Europa continuerebbe ad essere una arena competitiva ma tante imprese (italiane comprese) avrebbero possibilità di crescere. Con benefici per l’integrazione e per lo sviluppo economico. Sarebbe anche un modo per mostrare il bluff di coloro — e sono tanti in Europa — che si dicono europeisti pur difendendo l’azione frenante delle suddette lobbies.
Poiché le persone normali tengono sia a difendere il proprio modo di vita sia, se possibile, a migliorare la propria condizione, bisognerebbe saper spiegare agli europei che cosa realisticamente si può fare per rendere l’Europa, in questa nuova fase storica, capace di rispondere a quelle aspettative. È uno dei principali punti deboli dell’europeismo tradizionale. Poiché per decenni l’integrazione europea è stata il frutto dell’azione di élites che non avevano bisogno di coinvolgere gli elettori, spesso gli europeisti, tutt’ora, parlano d’Europa senza fare i conti con l’oste. Se non si convincono i cittadini dei vari Paesi europei non si va da nessuna parte.
Ma non è affatto detto che gli elettori non siano in grado di comprendere e apprezzare le ragioni del realismo.