Pronto il disegno di legge che modifica il reclutamento dei docenti degli atenei. Più imparzialità nella scelta dei futuri professori

Chiunque ha assistito con sbigottimento a quanto negli ultimi vent’anni è accaduto nell’Università italiana non può che tirare un sospiro di sollievo leggendo lo schema di disegno di legge approvato ieri dal Consiglio dei ministri che cambia radicalmente le regole del reclutamento del personale docente dei nostri atenei. E ne va riconosciuto il merito al ministro Bernini la quale ha dato ascolto alle voci non proprio così numerose (tra le quali ci metto anche quella di chi scrive) che da tempo chiedevano un intervento deciso in tal senso.
Fino a oggi per l’immissione in ruolo di nuovi docenti le cose funzionavano così. Un’Agenzia Nazionale (l’Anvur: composta da docenti universitari) stabiliva a sua discrezione il tipo e la quantità — si noti: la quantità — di attività e di «prodotti» scientifici che ogni candidato doveva possedere per poter concorrere a una cosiddetta «abilitazione scientifica nazionale». A rilasciare periodicamente la quale, previo esame dei titoli dei candidati (in assenza degli stessi), la stessa Agenzia di cui sopra nominava per ogni settore scientifico-disciplinare una commissione di docenti selezionati con criteri aritmetico-quantitativi di cui risparmio l’illustrazione ai lettori per evitare di farli impazzire. Una volta ottenuta l’abilitazione l’abilitato poteva quindi presentare la propria candidatura in qualsiasi Dipartimento universitario che disponesse di un posto libero nel suo settore scientifico disciplinare, ed entrare in ruolo in forza di un concorso che per le modalità di formazione della commissione giudicatrice si risolveva in una pura e semplice «chiamata» da parte del Dipartimento stesso
In questa descrizione della procedura — necessariamente sommaria ma sostanzialmente fedele — ho omesso però un particolare. Un particolare perverso e decisivo: il numero dei possibili vincitori dell’abilitazione era aperto, illimitato; un promosso insomma non avrebbe tolto il posto a nessuno, sicché nulla impediva che fossero tranquillamente dichiarati abilitati anche tutti i candidati indipendentemente dai loro meriti. E poiché, al pari degli altri esseri umani, anche i professori universitari — compresi i componenti delle commissioni giudicatrici — non sono angeli, è precisamente questo ciò che è accaduto. Essere bocciato all’abilitazione è diventato un evento rarissimo.
In un breve giro di anni si è creato in questo modo un enorme numero di abilitati, convinti che l’abilitazione dovesse significare automaticamente l’ingresso in ruolo, senza alcun riguardo per il numero dei posti disponibili. Una convinzione che peraltro ha avuto spesso successo: non già però in riconoscimento del merito, bensì assai spesso come premio per coloro in grado di far valere un rapporto precedente con questo o quel Dipartimento (perché vi avevano studiato e si erano laureati, perché vi avevano in qualche modo già lavorato, ecc.), riducendosi dunque il meccanismo del concorso perlopiù a una mera formalità.
È così che nel sistema universitario italiano ha cominciato a prosperare il flagello del localismo (intere carriere tutte nella medesima sede) facendo venir meno la possibilità — che invece fino al secolo scorso fu la regola — che anche le più periferiche sedi universitarie della Penisola vedessero insegnare nelle proprie aule, anche se solo per qualche anno, i massimi esponenti degli studi. Con quale beneficio per la circolazione delle idee nell’intero Paese è inutile sottolineare.
Le nuove regole presentate l’altro ieri dal ministro Bernini fanno in buona parte piazza pulita di tutto quanto fin qui detto. L’Abilitazione scientifica nazionale viene abolita. Di conseguenza vengono drasticamente ridimensionati anche i relativi poteri dell’Anvur nonché il ruolo che l’Agenzia aveva usurpato di Gran Maestro della regolazione degli accessi, determinando indirettamente e in modo perlopiù nefasto l’orientamento e l’attività scientifica dell’università italiana (gli articoli valutati come le monografie, l’incentivo a un’internazionalizzazione spuria, la moltiplicazione di convegni inutili per produrre inutilissime «comunicazioni», ecc.).
D’ora in poi l’immissione in ruolo avverrà tramite un concorso presso le singole sedi universitarie che dispongono di un posto; al concorso potrà presentarsi chiunque disponga dei requisiti fissati di volta in volta dal Ministero, autocertificati dal candidato. Infine, a giudicare in ogni singolo concorso sarà una commissione di cinque docenti universitari di cui uno scelto dalla sede tra i propri docenti e gli altri quattro estranei alla sede prescelti invece a sorte su base nazionale. L’esame della commissione, da ultimo, oltre a valutare le pubblicazioni presentate dal candidato (da un minimo di dieci a un massimo di quindici) prevederà d’ora in avanti anche una discussione circa i contenuti delle sue pubblicazioni scientifiche e delle sue esperienze didattiche.
Si tratta, come si vede, di novità che cambiano in modo significativo il meccanismo del reclutamento universitario. Che innanzi tutto lo rendono meno farraginoso e lo collegano direttamente all’effettiva esigenza dei posti disponibili, scongiurando in tal modo ciò che è invece avvenuto nella scuola, vale a dire la formazione di una massa di idonei che preme sull’istituzione per essere «sistemato» e prima o poi ci riesce a scapito quasi sempre del merito proprio e del bisogno effettivo di quella. Novità, infine, che vanno nella direzione sacrosanta di un meccanismo di giudizio non solo per quanto possibile imparziale, ma che, anche, grazie alla discussione dei titoli tra la commissione e il candidato, restituisce alla prova il carattere di serietà e di dignità culturali che essa non può non avere. Per tutti coloro che pensano che è soprattutto nell’ambito dell’istruzione che si gioca il futuro del Paese non è un merito da poco.

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