
La conferma dal Rapporto Favo sulla condizione dei malati oncologici: nel 2025 in Italia 3,7 milioni di cittadini vivono dopo la diagnosi ma sono quotidiani i nodi liste d’attesa, gap Nord-Sud, accesso a farmaci innovativi e tossicità finanziaria
Il grande paradosso delle cure oncologiche in Italia è che il Servizio sanitario nazionale non è più in grado di far fronte alle conseguenze del proprio successo. Nel 2024 le nuove diagnosi di cancro, sottolinea l’Associazione italiana di oncologia medica (Aiom), sono stimate in circa 390.100 casi. E i registri tumori indicano che c’è un costante aumento della prevalenza, cioè del numero di persone che vivono dopo la diagnosi, a oggi poco meno di 4 milioni. Eppure tra il 2012 e il 2022 a un aumento del 36% della prevalenza del cancro ha fatto da contraltare una riduzione dei posti letto in oncologia del 26%.
Sulla base dei dati ricavati dai registri tumori, il 17° Rapporto Favo sulla condizione assistenziale dei malati oncologici fa il punto sul trend della prevalenza. Nel 2010 erano 2,6 milioni gli italiani che vivevano dopo una diagnosi di tumore. Questo numero è aumentato fino a 3,5 milioni nel 2020, 3,7 milioni nel 2025 e sarà 4 milioni nel 2030, pari a quasi il 7% della popolazione italiana. Da sottolineare che nel 2010 le persone vive oltre dieci anni dopo la diagnosi erano circa la metà (939mila) di coloro che avevano avuto una diagnosi da meno di dieci anni (1,7 milioni), mentre nel 2030 si prevede saranno oltre 2 milioni, più di quanti hanno avuto una diagnosi da meno di dieci anni.
Altra buona notizia: tra tutte le persone che vivono dopo un tumore, si stima che l’85,6% ha la stessa attesa di vita di chi non si è ammalato, non morirà a causa del tumore è può essere ritenuto guarito.
Gli importanti progressi nella prevenzione e nel trattamento si riflettono quindi anche nella riduzione delle morti oncologiche. In dieci anni (2011-2021), nel nostro Paese, i decessi per cancro sono diminuiti del 15%, percentuale migliore rispetto all’Unione Europea, in cui il calo si è fermato al 12%. E tra il 2007 e il 2019 le cure oncologiche in Italia hanno permesso di “evitare” la morte di 268mila persone. Anche negli Stati Uniti la mortalità complessiva per tumori è diminuita del 34% dal 1991 al 2022, con circa 4,5 milioni di decessi evitati. E se gli Usa sono al vertice della ricerca mondiale contro il cancro, il nostro Paese si piazza comunque nella top five della classifica degli studi oncologici.
La formula “isorisorse” non regge
Cure di eccellenza che rischiano di essere (per un paradosso dovuto al loro stesso successo) sovrastate da un’onda di pazienti “sopravvissuti” al cancro, che necessitano negli anni di percorsi di follow up, esami diagnostici, controlli specifici e periodici, eventuali terapie. Una domanda di assistenza che non può e non potrà essere soddisfatta dal Servizio sanitario nazionale in una prospettiva “isorisorse”. La conseguenza è che si allungano le liste d’attesa per tutte le fasi del percorso di cura, da quelle iniziali delle prestazioni diagnostiche all’attività chirurgica e alla radioterapia. Fino alla riabilitazione fisica e psicologica, così importanti per il ritorno a una vita normale. Attese spesso incompatibili – si legge nel Rapporto Favo – con la piena efficacia della presa in carico del paziente. Con il doppio effetto negativo di compromettere gli esiti clinici, riducendo le possibilità di cura e di costringere i pazienti a cercare soluzioni alternative fuori dal canale pubblico, alimentando la spesa sostenuta direttamente dai pazienti, cosiddetta “out of pocket”.
Uno studio promosso sempre da Favo ha rilevato che, nel periodo compreso tra dicembre 2017 e giugno 2018, la spesa media annua di tasca propria, nonostante l’assistenza assicurata dal Servizio sanitario nazionale, superava l’importo di 1.800 euro. In questi casi, la lista d’attesa viene evitata, con un impatto diretto sulla spesa individuale e sull’equità di accesso.
Reti oncologiche incompiute
Equità intaccata anche dalle disparità regionali su presenza e livello di operatività delle reti oncologiche. Nel Rapporto Agenas sullo stato di attuazione delle reti oncologiche del 2023 emergono ampie differenze, dalle regioni totalmente performanti come Toscana, Emilia-Romagna, Piemonte/Valle d’Aosta, Veneto e Liguria, a quelle più carenti come Calabria, Molise, Sardegna, Umbria, Basilicata e Abruzzo, in cui il gap sul grado di soddisfacimento della domanda dei pazienti e sull’inefficacia dei processi emerge chiaramente dalla mobilità e dall’indice di fuga verso le regioni più efficienti.
Sulle difformità regionali ha punta l’indice il ministro della Salute Orazio Schillaci proprio in occasione della presentazione del Rapporto Favo alla Camera dei deputati, in occasione della XX Giornata nazionale del malato oncologico: «In Italia la metà di chi si ammala riesce a guarire. Lo sforzo – ha sottolineato – oggi deve essere soprattutto diretto a garantire una maggiore equità nell’accesso ai servizi, affinché un paziente non debba più spostarsi dalla propria Regione per potere ricevere cure adeguate alla propria malattia. Eppure, come mostra anche il vostro studio, vi sono ancora Regioni che scontano un grave ritardo nell’attuazione della rete oncologica, modello per eccellenza di assistenza al paziente, consentendo continuità assistenziale, integrazione ospedale- territorio, appropriatezza ed equità. Ritardi e disparità che oggi facciamo fatica ad accettare».
Pazienti decisivi nei processi decisionali
Una svolta sul coinvolgimento dei pazienti è arrivata dall’ultima legge di bilancio, come ha spiegato il presidente della Favo Francesco De Lorenzo: «I pazienti potranno finalmente partecipare ai principali processi decisionali in materia di salute individuati dal ministero nonché alle fasi di consultazione della Commissione scientifica ed economica dell’Agenzia del farmaco Aifa. Questo vale anche per la valutazione in fase di Health Technology Assessment (Hta) di una nuova terapia, per quanto riguarda gli aspetti etici, organizzativi, sociali e della qualità della vita. Ma va detto che a oggi siamo ancora in attesa del Regolamento con cui Aifa avrebbe dovuto già entro sessanta giorni dall’entrata in vigore della manovra per il 2025 dare attuazione a questa importantissima disposizione».
Car-T a macchia di leopardo
Anche l’erogazione delle terapie cellulari avanzate Car-T (Chimeric Antigen Receptor T-cell) presenta criticità e risente della cronica patologia nazionale, la “macchia di leopardo”. «La diffusione e implementazione in Italia delle Car-T presenta ancora oggi – si legge nel Rapporto Favo – delle importanti differenze a livello regionale. Sebbene il trattamento con Car-T sia approvato a livello nazionale dall’Agenzia italiana del farmaco (Aifa), la sua disponibilità e accessibilità variano sensibilmente tra le diverse regioni italiane a causa di una molteplicità di fattori». I centri autorizzati all’erogazione delle Car-T in Italia sono attualmente 51, di cui pochi quelli realmente operativi, in gran parte nelle regioni del Centro-Nord Italia.
La tossicità finanziaria
Per i pazienti del Centro-Sud e delle regioni più piccole c’è di fatto una minore possibilità di accesso alle terapie innovative. Quindi non resta che affidarsi ai viaggi della speranza. Una valigia – quella del paziente costretto a spostarsi o a pagare le prestazioni di tasca propria – che ha un costo alto in termini umani ed economici. Secondo dati Aiom (Associazione italiana di oncologia medica) il 38% delle donne colpite dal tumore della mammella deve affrontare la tossicità finanziaria, cioè le conseguenze economiche determinate dalla malattia e dai trattamenti. Il 32,1% ha ridotto le spese per le attività ricreative (vacanze, ristoranti o spettacoli) e il 10,3% addirittura quelle per beni essenziali, come il cibo. Inoltre, il 20,7% è stato costretto a intaccare fonti di risparmio (Tfr, investimenti, fondi), proprio per far fronte ai costi sanitari conseguenti alla neoplasia. Oltre il 70% delle pazienti con tumore del seno sostiene spese private nel percorso di cura soprattutto per farmaci e visite specialistiche, con un costo medio annuo pari a 1.665,8 euro. Il fenomeno coinvolge in particolare le residenti nel Centro e nel Sud e Isole, giovani e con una diagnosi recente.
Lungosopravviventi sfida per il Ssn
Infine, un’altra conseguenza generata dal successo dell’oncologia. L’aumento dei lungosopravviventi, cioè dei pazienti che sopravvivono da oltre cinque anni a una diagnosi di tumore, e del numero di pazienti che possono essere ritenuti guariti (in costante aumento) rappresentano una sfida per il Sistema sanitario nazionale. Oltre a una serie di bisogni specifici non sempre riconosciuti – come le conseguenze a lungo termine della malattia e delle terapie, gli impatti sul lavoro, sui rapporti sociali e sui budget familiari – ci sono anche bisogni psicologici, «non adeguatamente trattati all’interno del corrente modello di cura, poco incentrato sulla cronicità e sugli aspetti riabilitativi», si legge nel Rapporto Favo. Ansia, depressione o stress post-traumatico, disturbi del sonno continuano a trascinarsi nel tempo fino a diventare una costante nella vita dell’ex paziente. Uno dei bisogni psicologici maggiormente inespressi è la paura della ricaduta di malattia. Tale paura, della recidiva o della progressione del cancro, è considerata una delle esigenze insoddisfatte più frequenti segnalate dai pazienti a cui sono stati diagnosticati tutti i tipi e gli stadi di cancro.