La pace dopo 30 anni di guerra. Lo sfruttamento di minerali strategici va oltre il sanguinoso scontro etnico hutu-tutsi con milioni di morti
Ruanda e Repubblica Democratica del Congo hanno firmato un accordo di pace per porre fine a uno dei conflitti più sanguinosi, e al tempo stesso aprire alla partecipazione americana lo sfruttamento delle ricchezze minerarie dell’Africa orientale. I governi hanno concordato di «cessare immediatamente e incondizionatamente qualsiasi sostegno alle milizie armate» nell’Est del Congo e di lavorare per il loro «disimpegno, disarmo e integrazione».
L’accordo, mediato dagli Stati Uniti e dal Qatar e firmato a Washington, prevede una nuova cooperazione tra i due ex nemici, compreso il rispetto dell’integrità territoriale reciproca e il divieto di aggressione. Quel conflitto dura da decenni. Affonda le sue radici nel genocidio ruandese del 1994, durante il quale più di un milione di persone—principalmente tutsi—furono uccise dagli hutu. Il Ruanda, così come la milizia M23, fino alla vigilia di questo accordo di pace giustificavano le loro azioni di guerra con l’obiettivo di proteggere la popolazione di etnia tutsi del Congo dalle violenze di una milizia avversa: le Forze Democratiche per la Liberazione del Ruanda. Quest’ultimo è un gruppo militare affiliato agli hutu, composto da resti dell’ex esercito ruandese fuggito oltre il confine dopo il genocidio. Il Ruanda, che nega di sostenere l’M23, accusava il governo congolese di appoggiare le milizie hutu.
Se l’intesa verrà rispettata, il Ruanda ritirerà le proprie truppe dall’Est del Congo. L’anno scorso aveva inviato più di 4.000 soldati oltre il confine a sostegno dei ribelli dell’M23. Le truppe ruandesi erano equipaggiate con armi sofisticate, tra cui missili terra-aria, mortai guidati e armi anticarro. Questo dava all’M23 un vantaggio militare e ha permesso di conquistare le due maggiori città dell’Est del Congo, al centro di aree ricche di minerali. Più di 7.000 persone sono state uccise e oltre mezzo milione sono state sfollate solo quest’anno, nei sanguinosi scontri tra i ribelli dell’M23 e l’esercito congolese (sostenuto quest’ultimo dalle Nazioni Unite).
A seguito di una serie di sconfitte sul campo, il presidente congolese Félix Tshisekedi si è rivolto a Washington per chiedere aiuto. Tshisekedi ha offerto opportunità minerarie al Fondo Sovrano degli Stati Uniti, in cambio di un patto di sicurezza per sconfiggere i ribelli dell’M23. Qui si entra sul terreno delicato per cui la notizia fa storcere il naso a molti: dietro l’accordo c’è il ruolo di Trump, del Qatar (noto per le sue tante ambiguità diplomatiche, fu a lungo il rifugio dei capi di Hamas), e c’è la corsa alle risorse naturali strategiche.
Al centro degli appetiti, locali e stranieri, si trova la miniera di coltan vicino alla città di Rubaya. Il coltan è una terra metallifera da cui si estraggono, con un processo di raffinazione, il niobio e il tantalio, due metalli rari dalle proprietà chimiche simili. Il niobio è utilizzato per migliorare la resistenza di acciai e superleghe, il tantalio nella produzione di condensatori elettronici e dispositivi medici. La vicenda aggiungerebbe un nuovo capitolo nella gara planetaria che vede opposti soprattutto Stati Uniti e Cina. Come si è visto nelle trattative commerciali di Ginevra, uno degli strumenti negoziali più potenti in mano al governo di Pechino, è la minaccia di cessare le forniture di minerali strategici e terre rare. La Repubblica Popolare non ha un monopolio «naturale» in queste risorse, che sono diffuse nel mondo intero; però si è conquistata una posizione dominante grazie a una paziente strategia dispiegata per decenni. Da una parte le grandi aziende di Stato cinesi hanno acquistato intere miniere o diritti di estrazione dall’Africa all’America latina. D’altra parte, libera dai vincoli ambientalisti dell’Occidente, la Cina ha concentrato sul proprio territorio raffinazione e lavorazione di minerali e terre rare.
Questa dipendenza del mondo intero dalla Cina si è rivelata pericolosa già 15 anni fa, quando Xi Jinping decise di «castigare» il Giappone, per ragioni politiche, colpendo Tokyo con un embargo sulle forniture di minerali. La pandemia fu un altro momento rivelatore, sulla pericolosa dipendenza dell’Occidente, a cui l’Amministrazione Biden reagì con una strategia di costruzione di filiere per la sicurezza negli approvvigionamenti. In questo senso l’accordo Congo-Ruanda sponsorizzato da Trump si situa nella continuità con l’azione dell’Amministrazione precedente. Può ridurre la pericolosa dipendenza dalla Cina. E al tempo stesso, si spera, garantire la cessazione di un conflitto sanguinoso.
Un esperto dell’area è Mario Giro. Ex viceministro degli Esteri, docente all’università di Perugia, autore di saggi sull’Africa, Giro è responsabile delle relazioni internazionali per la Comunità di Sant’Egidio, che in quel continente ha una presenza antica e radicata. Ecco la sua analisi: «L’accordo è un fatto molto positivo: non si riusciva più a negoziare da anni. Verte sulle terre rare ed è giusto che sia così: si tratta del “nervo della guerra” come si dice da quelle parti, cioè non solo e non tanto della causa originaria (molto più complessa, politico-etnica) ma di ciò che ha permesso alla guerra di proseguire per quasi 30 anni. Il Ruanda si è fatto “predatore” di minerali che non possiede ma che esporta: una pratica che sfrutta reti illegali o criminali per funzionare. Cosa guadagna il Ruanda dall’accordo? La lavorazione delle terre rare che ora può diventare ufficiale. La parte difficile che resta da gestire è il disarmo delle innumerevoli milizie o gruppi armati (si va dai 100 ai 200) dei due Kivu (nord e sud) e dell’Ituri: chi lo farà? Chi rimetterà ordine in regioni anarchiche da 30 anni?»
Non è chiaro se gli Stati Uniti siano disposti a metterci anche delle risorse militari, per garantire che la pace sia durevole. La Cina, la Turchia, e soprattutto la Russia, sono presenti in varie zone dell’Africa in questa funzione di «security provider», fornitori di sicurezza su invito dei governi locali. In certi casi lo è pure l’America, e lo era la Francia, quest’ultima però di recente si è vista cacciare da molte ex-colonie che hanno optato per ribaltamenti di alleanze.