La parte più seria e consapevole dell’Europa non può inseguire questi giochi di prestigio. Deve prendere consapevolezza di sé e imparare a fare da sola

Le cose cambieranno solo se e quando (potrebbe accadere già oggi) Donald Trump metterà anche Mosca nel mirino della sua politica daziaria. Spingendosi a imporre una gabella del 500% ai Paesi che acquistano gas, petrolio e uranio dalla Russia come prevede il disegno di legge del senatore Lindsey Graham. Solo allora dovremo riconsiderare il discorso. Ma solo in parte. Al momento, comunque, gli alti dazi imposti da Trump all’Europa per la loro valenza politica costituiscono la prova che lo stretto rapporto tra il presidente degli Stati Uniti e quello russo tiene.
Per quanto gli europei possano trattare nelle prossime due settimane è improbabile che quel 30% scenda in misura da renderlo accettabile per le nostre economie. E, a ogni evidenza, Trump conta sulla prospettiva che i Paesi del nostro continente, sottoposti a pressione dai loro apparati economici e dalle opposizioni filorusse vadano da lui, ognuno per conto proprio, a paetire un trattamento di favore. Che, forse, otterranno. Allo scopo di poter essere additati come esempio per i loro atti di sottomissione. Così da mettere in fibrillazione gli altri Paesi europei che invece si saranno fin lì mantenuti uniti. E mandare in frantumi proprio questa unità.
Tutto ciò accade perché l’ultima settimana ha dimostrato quanto tenga, al di là di ogni aspettativa, il legame tra quel che resta del fronte occidentale e Volodymyr Zelensky. Imperniato, questo asse, su Francia, Germania, Polonia ma anche Gran Bretagna e Canada. Ai quali si aggiungono i Paesi dell’Europa settentrionale. E, fino ad oggi, anche l’Italia (compresa una parte non irrilevante dell’opposizione). Poco, rispetto a come il quadro complessivo si presentava fino a un anno fa. Ma sufficiente a dotare l’Ucraina della deterrenza necessaria per resistere e potersi eventualmente sedere — a fronte alta — ad un tavolo della pace. Tavolo che però al momento non si intravede neppure all’orizzonte.
Kiev sta dimostrando di essere in grado di sopportare i bombardamenti che la devastano ogni notte assieme ad altre città anche distanti dal fronte militare del conflitto. Vladimir Putin, non riuscendo a vincere la partita là dove combattono gli uomini, cerca di provocare con le bombe sui civili il crollo morale del Paese invaso tre anni e mezzo fa. Si avvicina minaccioso con i suoi missili ai confini della Polonia. E umilia platealmente Trump costretto, a sei mesi dall’insediamento alla Casa Bianca, ad ammettere che, certo, quelle bombe provocano morti. Molte morti. La fortuna di Putin e soprattutto di Trump è di non dover subire una mobilitazione delle coscienze simile a quella provocata da altre riprovevoli (sottolineiamo: riprovevoli) devastazioni belliche. Controbilanciata, questa fortuna, da un nuovo papa, Leone XIV, che si mostra leggermente più sensibile agli accadimenti ucraini di quanto lo fu il suo predecessore.< Trump si vede costretto a denunciare per tre volte consecutive un «malinteso» con il suo segretario alla Difesa Pete Hegseth e a riprendere la fornitura di armi all’Ucraina. Con il contagocce e facendosele pagare dalla Nato. Putin si prende pubblicamente gioco di Trump ogni volta che gli è possibile. L’ultima è stata di offrirgli quel che non è nella sua disponibilità e cioè che Teheran spalanchi le porte agli ispettori in cerca dell’uranio arricchito volatilizzatosi dopo la curiosa conclusione della cosiddetta «guerra dei dodici giorni». La parte più seria e consapevole dell’Europa non può inseguire questi giochi di prestigio. Deve prendere consapevolezza di sé e imparare a fare da sola. Non dovrebbe mai spingersi al punto di rottura con gli Stati Uniti (di cui Trump è presidente pro tempore e potrebbe anche essere dimezzato nei suoi immensi poteri attuali ben prima della scadenza del mandato). E deve trovare al cospetto del Presidente degli Stati Uniti una compattezza di cui in passato non ha mai avuto bisogno. La trattativa sui dazi è, ad ogni buon conto, una trattativa politica. E il fare fronte comune val bene qualche sconto in meno. Noi la definiamo «guerra d’Ucraina». Ma qui, da tempo è in gioco l’Europa. In particolare, la sua capacità di diventare adulta come soggetto politico, districandosi tra i lacci che essa stessa si è data. Le sue dimensioni economiche e il grado di maturità della classe politica di cui disponer nella cabina di comando glielo consentono. Il momento è questo. Se l’Europa resterà unita nella trattativa sui dazi (anche a costo di perdere per strada qualche entità mediterranea o centro orientale) potrà dimostrare a sé stessa d’essersi emancipata da una tutela che, impedendole di crescere, dura da quasi un secolo. Verrà forse il giorno in cui gli europei, voltandosi indietro, si troveranno nella condizione paradossale di dover dire grazie a Donald Trump-

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